di Gianluca Albanese
“In Calabria anche le capre sono in contemplazione”. Si chiude con questa citazione, apparentemente sibillina, il saggio “Il fuorilegge. La lunga battaglia di un uomo solo” (Feltrinelli, 2020) di Mimmo Lucano, l’ex sindaco che fece di un quasi anonimo borgo in via di spopolamento (conosciuto, prima del ’98, solo per essere stato il luogo di ritrovamento dei Bronzi, poi trasferiti al museo di Reggio Calabria) un esempio mondiale di accoglienza – dolce e sostenibile – di rifugiati e richiedenti asilo.
Il libro, uscito da pochi giorni, non è un’autobiografia nel senso tradizionale del termine; men che meno un manifesto politico. Semmai è una raccolta di pensieri in ordine sparso, di un uomo semplice tra semplici, umile tra gli umili. Perché è vero che Lucano ripercorre le tappe principali della sua parabola amministrativa e della vicenda giudiziaria non ancora conclusa, facendo nomi e cognomi e indicando singole responsabilità, ma ciò che colpisce il lettore sono soprattutto le pagine in cui viene fuori la persona Mimmo Lucano, che è prima di tutto un uomo lontano ed equidistante dal modo in cui viene descritto e in cui si vuole far assurgere a simbolo, secondo le proprie personali convenzioni politiche: leader naturale di una sinistra coerente coi propri ideali e non disposta a piegarsi a conformismi o pastoie burocratiche da una parte, soggetto indagato e accusato di gravi reati dall’altra, nel mirino di chi confonde i propri istinti con l’ideologia politica e ne vorrebbe esibire lo scalpo.
No, Mimmo Lucano non è né l’uno, né l’altro. E’, per dirla coi versi di Gino Paoli che cantava Fausto Coppi “Un omino che non ha la faccia da campione” e che, suo malgrado, si è ritrovato al centro di un’attenzione mediatica (in un senso o nell’altro) che non aveva sicuramente chiesto, né tantomeno voluto.
Il suo mondo è la piccola Riace, dalla quale, anche quando era sindaco, si spostava malvolentieri. E se è vero che l’autore non dimentica di citare i tanti personaggi famosi che lo hanno sostenuto, supportando il suo modello di accoglienza, i passaggi più accorati vengono dedicati alle tante persone semplici che gli hanno insegnato qualcosa: dalla povera Becky, morta nel rogo della tendopoli di San Ferdinando al suo amico Cosimo, scomparso prematuramente, fino al suocero Franci, così simile a lui negli slanci di generosità spontanea e nel rapporto distaccato col denaro.
Senza indulgere al vittimismo, Lucano racconta i fatti che lo portarono anche a trascurare la famiglia, e delle divergenze col compianto padre e col figlio maschio, i due Roberto ai quali dedica un bel capitolo.
La sua vicenda giudiziaria non si è ancora conclusa ma il vento, quel vento spesso evocato come metafora di una forza che determina i destini, sembra non soffiargli più forte contro, come la Tramontana così rara da queste parti. Comunque vada, infatti, lascerà ai posteri l’eredità di un’utopia divenuta normalità, quella normalità in cui chiunque abbia avuto modo di visitare Riace e il suo villaggio globale, si è sentito a proprio agio.
I Prefetti, i Ministri, i Sindaci e i Procuratori vanno e vengono, soggetti al normale avvicendamento dei ruoli e delle cariche; gli uomini restano. Specie quelli come Mimmo Lucano, semplice tra semplici, umile tra gli umili.