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McDonald McDonald McDonald
Home Arte e Cultura

Caulonia, la ribellione dimenticata a 166 anni della sua ricorrenza

13 Marzo 2014
in Arte e Cultura
Tempo stimato: 16 min per leggerlo
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McDonald McDonald McDonald

di Francesco Tuccio (foto di Ilario Amato)

CAULONIA – Il clamore suscitato da quella vicenda scosse la rupe dalle fondamenta, e fece traballare la cresta frastagliata dove il paese s’era appollaiato con i grumi delle case e la contorsione delle vie, tanti secoli or sono. Furono giornate raccontate per lunghi anni, ma chi ci abita oggi, forse, non le conosce, oppure non vuole ricordarle. Tuttavia, nel cimitero, nella notte di ogni ricorrenza del 19 marzo, vaga distinto un urlo adirato e imperioso, fende i marmi delle tombe, i tumoli di terra, gli ossari e i monumenti sepolcrali, infrange il riposo eterno delle anime dei defunti, risalendo dal fondo limaccioso di 166 anni. Là v’era il convento dei cappuccini di Santa Maria di Primaluce, di quella che fu la Castelvetere bizantina o tarda romana, e ora chiamata Caulonia.

 

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Il padre guardiano della comunità dei frati ammoniva con cipiglio tuonante:
“Obbedienza! Noi siamo qui per curare le anime e condurle a Cristo Nostro Signore! Non siamo qui per sovvertire l’ordine del Regno! Diamo a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio!”
Queste parole erano una dura reprimenda al pensiero ed all’azione di fra Gerolamo da Cardinale. Il frate pregò, supplicò, piagnucolò per lasciare il convento, come avesse il compito urgente e gravoso di salvare delle anime in peccato mortale dalle fiamme dell’inferno. Fallì ogni gesto e ogni parola, e a sua volta, irrequieto, tenne testa al suo superiore sordo e irremovibile, obiettando:
“Ma il Padre del nostro ordine non esitò a spogliarsi di tutto per abbracciare i più umili, i poveri e i lebbrosi. Dio è nella carne viva del nostro prossimo sofferente, e là che va cercato e adorato, là vanno curate le piaghe atroci della crocifissione, mentre la Chiesa sostiene e vive all’ombra di Cesare, non vede la sua ingiustizia che semina fame e disperazione!”

Questione dura da dirimere nel trapasso dei tempi e ancora aperta ai giorni nostri. Il padre guardiano aveva ben ragione. Francesco d’Assisi fu il primo uomo di pace che la storia ricordi, trasse dai Vangeli una concezione della vita terrena imperniata sulla perfetta armonia tra il Creatore e il creato. L’universo e la terra, e con essa gli uomini, gli animali, le piante e le forze della natura, erano accumunati nell’amore fraterno che avrebbe dovuto ispirare ogni azione umana. Il Poverello d’Assisi si sottomise alle gerarchie ecclesiali e commise l’atto della disobbedienza trascendentale con l’imporsi il rigore crudo della vita ascetica e indigente, mentre Papa Innocenzo III e la sua corte erano assisi sul potere temporale della trasgressione, del lusso e della ricchezza più scandalosi, lontani dalle anime e dai principi originari della fede.

Fra Gerolamo voleva andare ben oltre, aveva la presunzione e l’ardire di voler applicare sulla terra la giustizia divina. L’unica che avrebbe potuto alleviare i pesi grevi della vita degli ultimi. E da qualche tempo, dai pulpiti delle chiese andava predicando, con la sua bella oratoria, dell’iniquità a cui veniva sottomessa la povera gente.
“Credete che l’elemosina vi faccia meritare un posto in paradiso. Ma, in verità, non avete guadagnato nulla! Da tanta ricchezza avete dato al povero solo il vostro superfluo per lasciarlo nella dipendenza della miseria. Gesù Cristo disse: è più facile che un cammello entri nella cruna di un ago, che un ricco nel Regno dei Cieli! Il vostro amore per il prossimo ha, quindi, un compito più alto: rinunciare a ciò che serve per farlo vivere dignitosamente con il proprio sudore.”

Pronunciava parole sibilline che capivano tutti. La gente annuiva con il cuore aperto alla speranza, riponeva i suoi occhi in quelli infuocati del frate, ne seguiva sospirando i gesti delle braccia, l’additare della mano ferma, la parola dai toni alti e taglienti; partecipava sempre più numerosa a quelle prediche, sentendo che il Dio di fra Gerolamo era il suo Dio, quello tante volte invocato nelle preghiere, mentre la pignatta bolliva sul focolare erbe di campo e radici di piante o stava coricata a pancia vuota sui giacigli fatiscenti dei tuguri. Al contrario, i ricchi cominciarono a disertare le chiese in cui vi era la presenza del frate sobillatore. Ricorsero alle vecchie armi della maldicenza e della calunnia nell’intento di soffocare uno spirito libero che interpretava la sua missione di fede intimamente intrisa con i mali dell’epoca e ne traeva la necessità della preghiera e l’urgenza dell’azione. Costituiva un pericolo grave che andava fermato, mettendo sotto accusa la persona per bandirla dall’ordine e dal paese. Al padre guardiano del convento giunsero pressioni e poi minacce per quel frate che dava scandalo e attentava ai beni sacri dei nobiluomini.
Fra Gerolamo non si lasciò intimidire, sentiva che gli eventi avrebbero presto incrociato la sua strada. Attese paziente. Mulinava nella mente le parole e l’atto culminante per rendere più esplicite e dirette le sue prediche. Avrebbe indicato il modo per consentire al povero una vita dignitosa.

Giunsero i primi giorni del 1848 e, pur essendo nel cuore dell’inverno, l’aria era calda dal sangue versato nel fallimento dei moti dell’anno appena concluso e che condussero al tragico epilogo della fucilazione dei martiri Gerace. Quei giovani carbonari, braccati dall’esercito Borbonico, chiesero protezione ai confratelli della baracca di Castelvetere, come venivano chiamati i nuclei carbonari locali. Furono nascosti nella grotta del “Ioco”, traditi, catturati ed imprigionati per due giorni nel carcere che fu il convento dei Domenicani, conosciuto da fra Tommaso Campanella, adiacente alla chiesa del Rosario. Nessuno si mosse per la loro liberazione, e trasferiti a Gerace furono processati e sottoposti alla pena capitale.

Tornarono i moti indipendentisti in Sicilia e Palermo insorse dando impulso all’incendio di tutta l’isola. Ferdinando II fu costretto a concedere la Costituzione. Gli echi giunsero forti anche a Castelvetere, generarono inquietudini e paure, e fra Gerolamo, vedendo la Monarchia più debole e cedevole, pensò che la ribellione siciliana avrebbe contagiato tutto il Regno e nelle sue prediche lanciò lo strale finale: la spartizione tra i poveri delle terre comunali usurpati dai nobiluomini.
Nel resto del regno “protetto dall’acqua santa e dall’acqua salata”, al suono delle tòfe, dei pifferi, dei tamburi, delle grancasse e delle trombe, i contadini, i braccianti e la povera gente si riunirono e invasero le terre demaniali e delle mense vescovili, occuparono quelle usurpate, abbatterono siepi e recinti, le dissodarono per trarre il pane e la giustizia per il popolo affamato.

Una questione antica quella del Regio Demanio aggravata dagli effetti delle leggi eversive della feudalità imposte dai francesi. Il tempo aveva mostrato che a trarre vantaggio erano state la vecchia nobiltà e la ricca borghesia. Per il popolo rimasero solo speranze tradite e la compressione ancor di più stringente degli usi civici, il diritto della comunità di coltivare, raccogliere, cacciare a cui ricorreva chi aveva le sole braccia per lavorare, traendo dai frutti sollievo all’indigenza. La dinastia dei principi Carafa ed i nobiluomini avevano rubato quelle più fertili facendo sparire le carte per impedire che si potesse risalire al proprietario originario, il popolo bisognoso.
Fra Girolamo, perciò, mise il dito sulla piaga viva e sanguinante, suscitò un gran clamore al punto che i nobiluomini si divisero, si accusarono vicendevolmente di usurpazione. I popolani non attendevano altro, avevano trovato chi aveva saputo rappresentare la loro brama atavica: la fame di terra poteva essere finalmente soddisfatta, bisognava soltanto muoversi, l’occasione agognata per cambiare la propria vita era a portata di mano.

L’equinozio di primavera stava per sopraggiungere, quando l’interludio tra la notte e l’alba del 19 marzo vide affacciarsi per la prima volta sul proscenio della nostra storia gli eterni sconfitti, gli emarginati, i miserabili che non parteggiavano più per le fazioni contrapposte dei nobili o per i briganti, ma per se stessi e le loro famiglie, la loro prole numerosa. Si accesero le lumiere nelle case basse, nei tuguri, nelle stalle e In tanti a cavalcioni sui basti degli asini, seguiti dalle donne e dai figli, uscirono, frusciando sul lastrico dei vicoli con i piedi scalzi e gli zoccoli ferrati, dalle quattro porte per attendere alle fatiche dei campi, e tanti altri ancora, con i piedi nudi e gli scarponi chiodati, confluirono verso piazza Seggio, che ben presto si riempì d’ombre umane insolite, indistinte e confuse. Le mani armate di roncole, accette, forconi, schioppi e pistoloni a tromba arrugginiti fremevano in un silenzio zeppo d’ansia avvolgente, sovrastante. Più i crocchi delle persone crescevano e si moltiplicavano, più un’idea di forza e di potenza prendeva gli animi e l’infuocava come accesi dal sole che si stava levando. Parevano pronti a tutto, anche a far scorrere il sangue a fiotti lungo le vie.

La luce dorata del nuovo giorno irradiò i campanili, i tetti delle chiese e dei palazzi e diede il segnale atteso. Tante grida si levarono all’unisono, agitando in aria le armi improvvisate strette nelle mani; si fusero in un solo grande urlo; un ruggito divorante che nell’alzarsi al cielo arrossato dilatava lo slargo della piazza. Giacinto, un ragazzo bruno con la zazzera ricciuta, mezzo nudo e sordomuto, prese due pietre e le batté l’una contro l’altra, affidò a quei rumori afoni le parole che gli agitavano il cuore.
Non gridavano “viva la Costituzione”, “viva la libertà”, “viva l’Italia unita”. Erano lontani, distanti dagli ideali e dai programmi delle sette carbonare e massoniche a cui avevano aderito alcuni dei galantuomini usurpatori del demanio
.
“Terra, vogliamo la terra!”, “a noi le terre usurpate!”, erano le richieste che andavano e venivano col muggito stentoreo delle onde infrante dai fortunali. Percosse i vetri e rimbombò nei fregi dorati delle grandi stanze del palazzo del barone Musco, lo assalì, lo invase come l’alta marea, mentre sognava placido nel suo baldacchino adornato di drappi di seta. Il barone, mezzo sordo, si svegliò schiantato, inforcò gli occhiali e cercò tremante il campanello, scendendo dal letto intorpidito e confuso. Lo agitò con movimenti larghi e rapidi finché non emise gli squilli d’un richiamo cupo e allarmato. Accorse per primo il servitore più fedele e a cui gli chiese:
“Che succede? Cos’è questo fracasso?”
“La gente grida che vuole la terra!” Gli urlò in un orecchio il servo.
“La terra! Che terra?” Chiese ancor più sbalordito il vecchio signore.
“La terra! La terra di tutti, anche quella di vostra eccellenza!” Fu la nuova risposta secca che trafisse il cuore traballante del barone.
“Ah no! La mia terra no! Presto, armatevi, sbarrate il portone e i magazzini, appostatevi dietro finestre e balconi, sparate a chi si avvicina al mio palazzo!” A questi ordini seguì un fuggi fuggi disordinato verso l’armeria e presto la servitù, i fattori, i braccianti, gli stallieri presenti si misero a spiare quello che accadeva nella piazza antistante.
Il panico del barone Muscò contagiò gli altri signori, ormai asserragliati e armati nei loro palazzi, e si diffuse in un lampo per le case, le vie e i vicoli. Le povere guardie urbane non ebbero il coraggio di varcare la soglia di casa, in fretta svuotarono le vecchie cassepanche per nascondersi dentro ed origliare dalle fessure. Nell’angustia dei piccoli locali bui, disadorni e scarni, le donne trepidanti scorrevano inginocchiate la corona del rosario.

A giorno ormai chiaro, la piazza pullulava di folla tesa, vestita da abiti rudi dai colori quasi uniformi, stinti, rattoppati e lisi, di berrette e cappelli, di barbe e mustacchi, di braccia alzate come rami al cielo nel folto dei boschi, di occhi furenti e bocche slargate nell’urlo inesausto, immoto, stretto in una indecisione lacerante. Che fare? Come prendere la terra? Come spartirla? Il conciapelle Ilario Oppedisano e l’inserviente comunale Francesco Scuteri, all’improvviso, ruppero l’indugio gridando: “al castello, andiamo al castello!”. Divennero i capi della rivolta e tutti si mossero come un corpo solo, straripante e turbolento nella salita della strada principale del paese. Divelsero porte e cancelli, entrarono nel castello diroccato, poi nell’ex convento dei Domenicani, nella villa dei Campisi al Carmine ed in altri locali. Non cercarono, né aggredirono le persone più invise, ma i simboli del loro potere come volessero mandare un ammonimento, il preludio a conseguenze più gravi.
Ad un certo punto si fece strada la certezza che sarebbe intervenuto l’esercito ed il paese, di cui ormai si sentivano padroni senza spargere una goccia di sangue, poteva trasformarsi in una trappola mortale. All’infuori delle porte, mancava di vie di fuga nel caso di scontro a fuoco con uomini addestrati e ben armati. Decisero di uscire, rubarono per sfamarsi tutto ciò che vi trovarono negli orti e nei poderi sottostanti la rupe. La terra s’apriva, come compiaciuta, alla selva dei passi, e le pozze dell’ultima pioggia nella strada brillavano sorprese e stupite. Si diressero muti e si radunarono in un punto preciso: al Calvario di Sant’Ilarione Abate, a pochi passi del convento dei Cappuccini di Santa Maria di Primaluce, dove lasciammo fra Gerolamo da Cardinale in accesa discussione con il padre guardiano.

I suoi figli, ora, erano là, sotto l’avanzare di un cielo notturno vispo di stelle e dei fiati ansimanti nell’aria primaverile della campagna, odorosa dei nuovi profumi dei fiori appena schiusi. Tutto conduceva alla serenità silenziosa della notte, alla riconciliazione con gli uomini e la natura. Ed anche i loro cuori accesi come la sulla porporina rifluivano verso la riflessione. “Che fare?” Si chiedevano il conciapelle ed il messo comunale. E fra Gerolamo avvertì quel momento di incertezza, di disperazione, di richiesta di soccorso. Non avrebbe potuto abbandonarli, doveva unirsi a loro, guidare e condividerne nel bene e nel male la sorte. Ma il suo superiore glielo aveva impedito. “Obbedienza!” E l’obbedienza era uno dei cardini dei suoi voti, un tutt’uno con i principi della fede che non avrebbe mai potuto tradire. Rimase nella sua cella inginocchiato a pregare contrito e con gran fervore per quei poveri diavoli che, al contrario, pensarono di essere stati abbandonati in quella notte insonne.

Intanto i galantuomini, gli amanti dell’ordine monarchico si dettero un gran da fare, cercarono persone di buona volontà disposti ad armarsi, fecero barricare le quattro porte, piazzarono dei cannoni di ghisa, ma non trovarono molte adesioni nelle persone rimaste nell’abitato. Nessuno avrebbe potuto uccidere il fratello, il parente, l’amico, il vicino di casa.
Il cardinale Ruffo creò e guidò l’esercito della Santa Fede contro i francesi e la giacobina Repubblica Partenopea per rimettere sul trono il borbone Ferdinando IV, e l’arciprete della Matrice, memore di cotanto ardore in quel momento tragico e solenne, convocò il numeroso clero al grido di “Viva il Re! Viva Dio!”, e anche i preti presero le armi per sparare sul gregge che il buon Gesù Cristo gli aveva affidato.
Nel giorno successivo ci furono incruenti scambi a fuoco che fecero risalire nel sole soltanto rose di fumo, fu sparato pure un colpo di cannone contro gli insorti dalla cima del castello, poi arrivarono le guardie nazionali dei paesi vicini e, a marce forzate, un grosso contingente dell’esercito borbonico da Reggio Calabria. La plebaglia si disperse, si dileguò, si dette alla macchia finché non fu sicura di poter tornare a casa come un cane bastonato con la coda in mezzo alle gambe. Fu facile, troppo facile. Solo Castelvetere si era mossa in tutta la provincia di Reggio Calabria. Ancora le armi e la repressione cieca, la criminalizzazione di chi si ribellava alla madre di tutte le ingiustizie. La negazione della condizione disumana e del diritto ad una vita dignitosa furono le risposte di un potere inviso e spregevole che considerò quegli uomini un’accozzaglia di sanguinari, di comunisti senza saperne il significato, di nemici di Dio, del Re e della quieta convivenza civile.

La chiesa ancora una volta scelse Cesare, i nobiluomini si sentirono legittimati nel loro furto secolare, i ribelli tornarono a capo chino, umiliati nella loro miseria, e fra Gerolamo fu visto partire con il fagotto a tracolla, il bastone del viandante, la lunga barba francescana, la tonaca fluente al passo frettoloso e con la falda del cappuccio tirata sul viso per non essere riconosciuto. Ha avuto un coraggio grande quanto la sua fede, ha sfidato un potere sordo ed opprimente, ha portato tra la gente il volto sofferente del vero Cristo ed indicato la via maestra per uscire dalla miseria. Ma nessuno gli fu grato, e le terre usurpate tornarono per vivere altre vane primavere.

Tornarono nel giorno di Pasqua del 1908. Il cavaliere Ilario Cricelli, sindaco del tempo, aveva approntato un libro con l’elencazione degli appezzamenti, dei loro confini e degli illegittimi possessori. Questa volta i nobiluomini mandarono dei sicari. Al vespero, gli echi meridiani delle campane a festa per il Cristo risorto risuonavano ancora in Piazza Mese, e le rondini si erano acquetati nei loro nidi d’argilla, quando si sentì lo schianto di un colpo di fucile e il cavaliere Cricelli cadde a terra ferito. Un avvertimento che gli valse le dimissioni da sindaco e il fallimento della sua nobile impresa.
Tornarono dopo la liberazione del Sud delle forze alleate. Quel libro per vie misteriose giunse nelle mani del sindaco nominato a furor di popolo, Pasquale Cavallaro, che emise una deliberazione per censire le terre usurpate. Il 5 marzo del 1945 scoppiò la rivolta che avrebbe dovuto segnare una nuova era e, invece, fu l’inizio di una nuova tragica sconfitta.

Ora la terra ha perso i suoi antichi valori, non è più pane e giustizia sociale, riscatto di una vita dignitosa, e gli eredi e gli acquirenti di quel diritto di proprietà usurpata possono goderselo alla luce del sole.

 

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