R. & P.
Utilizziamo le parole come fossero oggetti di consumo. L’esempio più generalista è il termine “uguaglianza” che diventa senza un minimo di senso se chi lo adopera confronta sé stesso con gli altri. Questo individuo interpreterà il termine con una comparazione soggettiva sicchè non si sentirà uguale agli altri perché il suo essere è più rilevante, più egocentrico, ha gli occhi azzurri/neri/verdi, è alto, basso. Come si vede quel termine “uguaglianza” nella bocca di chi lo proferisce non ha senso, è privo di senso tant’è che lo stesso individuo perde il senso di quello che vorrebbe riferire. Se, viceversa, il termine “uguaglianza” si collega al tessuto sottostante cioè si collega al territorio vivente, quel termine inizia ad avere un preciso significato. Sono uguale agli altri perché godo degli stessi servizi, delle stesse prerogative, esercito gli stessi diritti civili, ho uguali opportunità e così via. Se io penso a Pitagora e l’altro mi risponde con l’oracolo di Delfi evidentemente non ha capito il senso del pensiero. Per Pitagora l’essere uguale era proprio la concretezza della lotta contro l’ineguale, essere schiavo non è proprio essere uguale, essere ricordato perché si è eroi non coincide con la crudeltà di escludere gli altri dal ciclo misterico della vita/morte. Ecco, parole sbagliate in un contesto mirante a costruire una identità storica e che si ripete come una mannaia nel tempo. Oggi si discute di elezioni regionali e, mentre si vorrebbe ritrovare il “senso” della parola fondante cioè della parola su cui costruire la struttura portante del pensiero, non manca chi di quella parola fa mercato cioè attribuisce al termine un non senso. C’è chi, per esempio, invece di guardare al tessuto sottostante e cioè ai riferimenti oggettivi che ci renderebbero uguali, pensa di andare nella dimensione sovrastante cercando alleanze che del tessuto sottostante hanno fatto e faranno ancora sfracelli aggravando ancora di più, per quanto è ancora possibile, il divario tra diseguali. Si sente ripetere ossessivamente “questa volta ce la dobbiamo fare” e, allucinati, ci avviciniamo pericolosamente ad una nebulosa che succhia energia per trasformarla in privilegi mentre, nel contempo, ci allontaniamo dalla realtà che vorremmo diversa, ci omologhiamo a sistemi organizzativi che tutti, ma proprio tutti, vorremmo combattere tanto è ormai palese l’iniquità irresponsabile. Le regionali non saranno il punto di svolta se non daremo ai calabresi la libertà di scegliere fuori e aldilà di quel sistema. Abbiamo il dovere di riportare la parola nel suo giusto senso, scegliere tra noi persone che connettono il verbo con le necessità, saperle descrivere, dare un significato al concetto di uguaglianza e, nel nome di questo, batterci. Noi siamo coloro che credono nell’intelligenza collettiva, abbiamo bisogno di rappresentarla, non allontanarci da quella ma, caso mai, affidarci a quella che da sempre è stato il faro del credo: “il senso comune”, il “buon senso”, quell’id quod plerumque accidit che pervade, dai tempi dei latini, lo spirito delle genti.