di Mario Staglianò
In un’ Europa che procede “a fari spenti” è necessario accendere un riflettore impietoso sul cuore oscuro della crisi occidentale. Non solo, e non tanto, per fare una requisitoria sull’inconsistenza della politica attuale o sulla deriva populista del continente ma, prima di tutto, per denunciare la grande assente del nostro tempo: la capacità di pensare.
Non il pensiero tecnico o scientifico, che prospera nella sua iper-specializzazione sterile, ma il pensiero umanistico, critico, filosofico. Quel pensiero capace di interrogare la realtà, di formulare visioni, di guidare l’azione collettiva. Una volta c’erano i Maestri oggi, solo, un clamoroso e assordante silenzio.
La democrazia europea non è minacciata da un colpo di Stato ma da un’implosione silenziosa: l’incapacità crescente delle sue élite di comprendere e governare le trasformazioni epocali in corso. Tecnica e capitale corrono indisturbati e la politica annaspa, priva di strumenti teorici e progettuali.
Il vecchio patto tra democrazia e lavoro — che aveva costruito il welfare europeo e cementato le società post-belliche — si è spezzato. Il lavoro non unisce più, la rappresentanza è in crisi, la politica ha perso autorevolezza. Al suo posto, si affermano oligarchie digitali, corporation transnazionali, populismi plebiscitari. Una nuova forma imperiale che ha già svuotato la democrazia dall’interno.
L’Europa ha smarrito la propria intelligenza storica proprio quando ne avrebbe più bisogno. Una civiltà che un tempo produceva filosofi, sociologi, giuristi, umanisti, oggi partorisce – quando va bene – tecnocrati e commentatori. La pluralità culturale, che avrebbe potuto essere la sua forza, è degenerata in un mosaico paralizzato da paure, sovranismi e afasia politica. In questo vuoto teorico, si fanno largo risposte identitarie, neoreazionarie, spesso violente. La destra cavalca l’onda, la sinistra balbetta. E gli intellettuali tacciono: un altro tradimento dei chierici.
Se estendiamo lo sguardo oltre l’Atlantico, se l’Europa piange l’America non ride. Qui l’egemonia americana si è tradotta in dominio economico e militare, non in guida morale o intellettuale. Da una parte una sinistra “woke” in cui è presente un attivismo ideologico che manca di basi teoriche, ossessionato dai simboli e sostanzialmente incapace di offrire soluzioni ai drammi reali del capitalismo globale. Dall’altra parte, una nuova destra tecno-populista che ridisegna l’impero americano come gendarme del capitale, abbandonando ogni pretesa universalista.
Ma il cuore del problema è un altro ed è la forma nuova del potere: un intreccio tra tecnica e capitale che nessuno oggi governa davvero. Le “compagnie-Stato” – Google, Amazon, Apple – dettano legge senza passare per il Parlamento. La loro egemonia è totale: infrastrutturale, informativa, esistenziale. Il lavoro operaio, motore politico del Novecento, è evaporato. Al suo posto, una folla di lavoratori isolati, precarizzati, incapaci di riconoscersi in un’identità collettiva. Senza classe, senza rappresentanza, senza futuro.
Eppure, non tutto è perduto se non ci si limita alla diagnosi. Di fronte alla globalizzazione del capitale è necessaria una proposta audace: rifondare un pensiero politico globale, capace di regolare il capitale e indirizzare la tecnica verso il bene comune. Serve una nuova alleanza tra democrazia, tecnica e umanesimo. Un progetto capace di immaginare un cittadino globale, non più schiavo del mercato, ma soggetto attivo di una governance planetaria. È la democrazia che deve globalizzarsi — non il contrario.L’Europa, per storia e vocazione, potrebbe guidare questa rivoluzione ma deve abbandonare le paure identitarie, l’esaltazione di un passato che non ritornerà e riscoprire invece il coraggio delle grandi visioni.
Se rifiutiamo il dibattito ideologico e sterile sulle “radici cristiane” del continente e riconosciamo l’impronta profonda che il cristianesimo ha lasciato su tutta la storia europea, da est a ovest possiamo, in particolare, distinguere due contributi fondamentali del pensiero cristiano: il teologico-politico, ormai in declino, e l’universalismo, oggi più vivo e promettente che mai.
Di fronte alla mondializzazione economica e tecnologica, l’universalismo cristiano — in particolare nella sua forma cattolica — può offrire una risposta morale, una visione umanistica e inclusiva della dignità umana. Potrebbe diventare, se rigenerato, il cuore di una nuova “evangelizzazione civile”, in grado di parlare all’uomo globale: ogni individuo, ovunque si trovi, come destinatario di un messaggio di riconoscimento e di amore.
In questa prospettiva possiamo immaginare una collaborazione nuova tra cultura laica e tradizione religiosa: un incontro possibile nella ridefinizione del concetto di persona. Liberata dalla sovrapposizione con l’individuo borghese-capitalistico, la persona cristiana può tornare ad essere l’asse tra finito e infinito, tra storia e trascendenza. Una categoria centrale per costruire un pensiero del futuro. E non è un caso che in anni di silenzio delle forze politiche occidentali — anche quelle di sinistra — solo la Chiesa cattolica sia rimasta voce critica contro le diseguaglianze globali. Pur con limiti e contraddizioni, essa ha rappresentato una coscienza morale contro l’appiattimento sul presente.
Il vero rischio non è solo politico o sociale. È antropologico. Se non riusciamo più a pensare l’essere umano, a dare senso al suo destino, il tecnocapitalismo finirà per sostituirci.La situazione attuale inquieta ma non rassegna. È necessaria una chiamata all’azione per intellettuali, politici, cittadini: se non torniamo a pensare il mondo, non saremo più noi a governarlo.