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McDonald McDonald McDonald
Home Arte e Cultura

Il racconto:”Giambattista u violinista”

18 Maggio 2015
in Arte e Cultura
Tempo stimato: 9 min per leggerlo
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McDonald McDonald McDonald

di Francesco Tuccio*

Ai vetri della vecchia credenza tarlata, spoglia e annerita dai fumi del focolare oramai da tempo taciturno e spento, Giambattista non vi aveva attaccate le figurine dei santi, una fotografia di sé o delle persone più care, quelle immagini dei recessi del cuore che si solevano mostrare come i panni variopinti stesi al sole sulle siepi di primavera, sui ciottoli delle fiumare, sul filo teso tra balconi e finestre dirimpettai; pareva non appartenesse né al cielo né alla terra, ma ad un ignoto oscuro e incomprensibile. Da quei vetri trasparivano soltanto la custodia del violino, e un mazzo di spartiti coi capricci di Paganini messi in cima, non aveva bisogno d’altro.

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Giambattista viveva per la musica, si nutriva con le sue note come la cicala del suo canto, e faceva impressione immaginare le melodie, le evoluzioni degli acuti e dei bassi spandersi nello stridore angosciante del tugurio dove abitava e che parlava sommessamente di stenti e di vita amara nel viluppo delle cose disfatte, raggelate dalle polveri degli anni nel filare congiunto delle case basse, con i muri scorticati imbiancati di calce, le tegole d’argilla e il soffitto di canne intrecciate, che da Maietta correva al Carmine sull’alta cigliata della timpa, sporto nel vuoto della vallata dell’Amusa sottostante.

Pazzo, altro non poteva essere chi aveva lasciato un posto sicuro, ed assai ambito, nella Guardia di Finanza per riapparire all’improvviso in paese, contentandosi di vivere nelle ristrettezze della miseria; così diceva la gente corrugata, sorda e immersa nelle inquietudini fitte delle partenze verso le terre lontane della speranza, oltre l’ignoto degli oceani tempestosi e infidi. Fino a un certo punto, Giambattista, seguì insofferente la parabola della vita, quel cammino premeditato, imposto, e, ciononostante, da tutti agognato: un lavoro, una sposa, una casa e il calore della famiglia nella vecchiaia incanutita e stracca. Col suo primo stipendio, guadagnato nelle città remote dall’aria rappresa nei gesti consueti e stanchi, realizzò il sogno inappagato dell’infanzia: comprò un violino e vibrando le sue corde di budello scoprì come si potesse volare liberi negli sconfinati spazi eterei della musica e dare appagamento alla sua natura irrequieta. Toccò con mano stupita l’elevazione e la purezza dello spirito nelle più vibranti emozioni dei sensi, lontane dalle apparenze forzate e ingannevoli, da finzioni e menzogne, al disopra delle necessità e dei beni materiali che rendevano schiavi e oppressi gli uomini nell’inseguire il benessere e la ricchezza, la felicità malintesa.

 Tornò con addosso gli abiti cuciti su misura e le scarpe da militare che rimasero sempre gli stessi a logorarsi per lunghi anni, mentre il suo corpo si rimpiccioliva di due o tre misure e gli occhi vivaci infossavano nelle orbite di un volto scarno e ossuto. Tornò, e suonò una musica inaspettata e inutile come la sua scelta di vita. Riempiva solo se stesso; non serviva alla sacralità delle chiese o alla banda cittadina, e neppure addolciva l’orecchio inasprito dalle fatiche dei contadini, riuniti nei crocchi ciarlieri delle cantine a sentire l’ebbrezza acre del vino della consolante dimenticanza.

Certo, il violino appariva uno strumento ben strano e sospetto, produceva un suono languido e indiavolato dove si ballava la tarantella al ritmo dei tamburelli, delle chitarre, delle fisarmoniche, degli zufoli di canna, delle zampogne dei pastori. Forse nelle vene di Giambattista scorreva un lambicco tenace dell’antico sangue ebreo. Gli israeliti per qualche misteriosa ispirazione prediligevano il violino, assai comodo da portare nelle notti del loro eterno peregrinare; commerciavano la seta, avevano una sinagoga, erano una comunità numerosa tanto da chiamare Juso la parte bassa del paese che abitarono, e i più lì rimasero dopo l’editto della cacciata del sovrano cattolico di Spagna regnante nel 1492. Spogliati dei loro beni si mescolarono nascondendosi tra gli originari castelveterini.

Un giorno scaldato da un bel sole che affettava in geometrie bizzarre l’ombra dei vicoli infiorati di rose e garofani, e non trovava nubi dietro cui nascondersi nel cielo color cristallo, riprese i suoi gesti quotidiani; gesti che compiva con l’accuratezza di chi stesse per librarsi nell’aria dimentico del suo peso e delle angustie della terra. Tolse dalla credenza la custodia del violino, la depose sul desco malfermo e prese l’archetto; tese i crini  con i piroli e controllò che il loro colore fosse brillante e uniforme; con una lunga carezza vi passò la colofonia, come se con la cipria dall’odore più sensuale dovesse lambire amorevolmente le gote rosee della donna che non aveva mai avuto. 

S’interruppe, sentendo bussare alla porta. Vagavano rotolanti sui tetti dodici rintocchi secchi del campanone dell’orologio della Matrice e una mano nascosta gli porse una ciotola di minestra fumante. Giambattista la prese in silenzio, annuì per ringraziare con lo sguardo mite e dimesso di chi era aduso ricevere i doni della cristiana provvidenza. Il paese toglieva spesso la maschera algida dell’indifferenza per riconoscere e riconoscersi nel bisogno. Lo faceva nel segreto più intimo, nel rimpianto più profondo in suffragio alle anime dei defunti. Al sollievo dei poveri rispondeva la remissione dei peccati degli estinti, la loro ascesa sulla scala della carità alla gloria di Dio.

Davanti ai vapori caldi della minestra ebbe momenti di cedimento. L’odore penetrava le narici ed espandeva un languore nello stomaco vuoto e rinsecchito. Riepilogò i suoi propositi e riprese determinato il preambolo, il rito sacro dei musicisti. Dispose il leggio con le partiture davanti all’unica finestra spalancata panoramica sulla vallata, pose il violino sulla clavicola sinistra, lo spinse verso il collo e vi adagiò leggero il mento timoroso; provò il tono delle note: sol, re, la, mi; calibrò le corde agendo sui piroli confissi nel riccio e quando tutto gli parve perfetto cominciò a suonare, mentre il sole tendeva il suo arco verso il profilo ondivago delle montagne rinverdite, i raggi in tralice denudavano le screpolature e le lesioni del misero impiantito del tugurio come le diramazioni avvolgenti delle ferite di un dramma, e l’ombra di Giambattista si stagliava, dilagava gigante, incontenibile e frenetica al ritmo dell’archetto, inseguito dal movimento di tutto il corpo e dai ciuffi dei capelli neri che scompigliavano vibrando.

Le donne del vicinato, indaffarate nelle solite, eterne faccende di casa, tesero l’udito ad un suono nuovo, allegro e giocoso. Le note briose riandavano alla fanciullezza, alle voci argentine dei ragazzi che a piedi nudi si rincorrevano per i vicoli tra il bruire cadenzato della pialla, il tintinnio metallico dell’incudine, il battito del telaio seguito alla corsa della navetta, lo stridore degli zoccoli ferrati e degli scarponi chiodati sul lastricato di pietre bianche di fiumara. Poi tutto volgeva nel tripudio degli acuti, delle visioni d’incanto raggiunte dalle cigliate rupestri nel raggio circolare dell’orizzonte, dai brusii della piana del mare, al moto sinuoso delle colline fino alle velature sperse delle montagne. Ed infine, il suono declinava basso al languore della sera, alle figure oniriche sedute sui pianerottoli, in cima ai gradini scalfiti nella pietra, al mulinare del fuso e dell’arcolaio, alle fiabe attorno al braciere e delle calde notti estive odorose di gelsomino, al fiato solitario delle stalle, al tempo che fatale scivolò tra le sue dita. Era come se quei suoni formassero una sinfonia dilagante nel solco profondo della vallata e alzandosi come l’alta marea facessero della rupe un’isola felice, lambita da acque tranquille che allontanavano l’inferno dei patimenti e concepivano il rifugio dove poter rinascere ad altra vita, forse raggiungibile solo con la morte.

S’interrupe di nuovo rapito nell’interludio incerto dei pensieri pesanti. Sulle colline le cavalcature, soffiando, arrancavano sui sentieri scoscesi che conducevano alla quiete del riposo con la mangiatoia ricolma di strame, e ai piedi dei contrafforti le greggi rientravano negli ovili di frasche e muri a secco, e i pastori nei secchi mungevano le mammelle delle capre, mentre in ansia sui tripodi attendevano le caldaie annerite. Giambattista raccolse nelle tasche il tabacco sbriciolato dai mozziconi che raccattava nelle strade, l’arrotolò nella cartina e si mise a fumare con l’avidità del condannato davanti alla forca. Sul suo proscenio mancava la luce elettrica. Attese l’alzata dell’opale bianco latte della luna piena, come volesse levare la serenata all’amata inafferrabile e fuggente. Suonò note di vibrante pianto, un inno al senso della vita vergata nelle pieghe segrete di un destino ineludibile e crudele. Una melodia straziante attraversò la falda della rupe scuotendone le ginestre abbarbicate, percosse sui clivi i laghi gemmati da primule e sulla, spuntati all’ombra degli olivi contorti. Un brivido giunse fino alle zagare dei giardini d’arancio cesellati a fondovalle e risalì per i vigneti elevati sull’altra sponda. Tacque il gracidio delle rane nelle pozze attorniate dai folto degli oleandri, tra i filari dei pioppi lungo il nastro bianco della fiumara. Finì con gli acuti che resero più pallida e sbigottita la luna con gli occhi rivolti alla terra. Preludevano ad un silenzio improvviso e sovrano nel profondo della notte stellata, da dove giungevano gli afflati commiserevoli del cosmo.

Qualche giorno dopo, nel tratto tra Maietta e il Carmine, si sentirono levare con le brezze i miasmi della solitudine. I netturbini comunali sfondarono una porta e trovarono una sedia riversa a terra e un corpo appeso alla trave del tetto. Su un desco vicino alla finestra vi erano posate una custodia di violino e una ciotola di minestra non consumata. Qualcuno mosso dalla pietà le depose nella bara, inconsapevolmente compiva un rito pagano delle civiltà antiche.

Più avanti nell’età adulta cercai inutilmente nel cimitero il posto dove Giambattista fu seppellito. Compresi l’ingiustizia: i poveri lasciavano la terra come se non fossero mai esistiti.

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