di Gianluca Albanese
MARINA DI GIOIOSA IONICA – Quando la scienza medica e l’azione missionaria di donne e uomini di fede agiscono insieme, sono capaci di ottenere risultati straordinari, anche nelle zone più povere del mondo. il gemellaggio tra la parrocchia di Marina di Gioiosa Ionica e l’associazione “Jimuel” presieduta dal medico e amministratore comunale Isidoro “Sisì” Napoli ha portato scuola, cibo, vestiario e assistenza medica nei posti più disagiati nel pianeta, grazie alla generosità dei fedeli, certo, ma anche grazie ad un uso corretto delle nuove tecnologie, che permettono ai medici italiani di assistere i colleghi kenioti utilizzando programmi di videochiamata on line come “Skype”.
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Ieri sera, nei locali della canonica il clima era festoso. Dal proiettore, nessuna immagine ad alto impatto emotivo per suscitare sentimenti di pietà e stupore. No, solo la gioia di collaborare alla riuscita dei progetti di assistenza materiale dei bambini poveri, il racconto e i video dei grandi risultati raggiunti in pochi anni di attività e i propositi per il futuro di questo bel connubio che buona parte della popolazione cittadina – a giudicare dalle numerosissime presenze – sente come una delle migliori risorse di questo territorio.
Ieri sera, dunque, i protagonisti sono stati i medici, le suore missionarie e i membri della parrocchia e delle associazioni. Le autorità presenti hanno ascoltato tutto, sedute tra il pubblico. Da quelle religiose (col vescovo Oliva e il Vicario Femia), a quelle politiche (in primis il Ministro per gli Affari Regionali Lanzetta), a quelle militari.
E allora, nel lungo prologo, con un sottofondo di danze tribali e ritmi festosi, ognuna delle suore impegnate nei progetti di assistenza ha raccontato la propria esperienza. «Voi non immaginate – ha detto suor Assunta che arriva dal Messico – la gioia di questi bambini quando vedono che possono curarsi ricorrendo al dispensario farmaceutico che abbiamo creato nel villaggio Mulot in Kenya o quando possono andare a scuola accedendo alla borsa di studio».
Tutti risultati che, ovviamente, sono possibili grazie alla generosità dei fedeli, le cui offerte sono tutte documentate e che vengono utilizzate per mandare a scuola e nutrire tanti bambini dello sperduto villaggio africano, per lo più orfani. Chissà cosa penseranno i nostri bimbi che piangono se non hanno l’ultima versione dei giochi elettronici, o di smarphone e tablet, sapendo che ci sono loro coetanei che fanno la fila per un pasto caldo dopo la scuola e, sapendo che durante il fine settimana la scuola è chiusa e che quindi manca anche la refezione, il venerdì fanno la fila fino a cinque volte per rimpinzarsi a dovere prima di due giorni di rifiuto forzato. Abbiamo avuto questo pensiero, nel sentire i racconti di suor Lidia, la missionaria keniota che ha portato la propria testimonianza, dopo la proiezione dei video.
Ma torniamo al gemellaggio. Il parroco don Giuseppe Albanese nella sua premessa ha detto che «Questa è la grande occasione di mettere in pratica quel comandamento della carità che Gesù ci ha insegnato, ovvero “Ama il prossimo tuo come te stesso”, e non c’è risposta più bella per chi fa quest’attività che il sorriso di questi bambini».
Dopo la proiezione di un video in cui i bimbi kenioti cantano il “Padre Nostro” nella loro lingua tribale, la signora Aurora Calabrò ha ripercorso le tappe principali del gemellaggio tra la parrocchia e Jimuel «nato tre anni fa – ha detto – e che in breve tempo ha portato all’acquisto di un’autoambulanza e dell’ambulatorio intitolato al povero Aurelio Falvo. Quindi, abbiamo potuto acquistare i farmaci e assumere un medico, riuscendo altresì a comprare una centrifuga necessaria a fare le analisi del sangue, pile solari per avere energia elettrica nel dispensario, compiuto interventi chirurgici salvavita e sostenuto materialmente, in un anno di straordinaria carestia, ben novanta famiglie fino al raccolto successivo».
Ma non solo. Tra gli altri risultati di maggior rilievo ci sono «La costruzione di un impianto idrico che ha reso il sito completamente autonomo; la realizzazione dell’idea del presidente di Jimuel Sisì Napoli, ovvero la realizzazione di una mensa nella quale servire ogni giorno un pasto completo. Il tutto – ha chiarito la Calabrò – non in una logica di mero assistenzialismo, ma educando i ragazzi e le popolazioni del posto all’autonomia, garantendo l’assistenza medica grazie al collegamento tra i nostri medici in Italia e il dispensario, nel quale è presente anche un computer donato da una società americana».
Sisì Napoli, visibilmente emozionato, ha ripercorso i primordi dell’associazione Jimuel, spiegando pure il perché di quella denominazione.
«Devo anzitutto ringraziare – ha detto il medico originario di Grotteria – suor Marisa che diede vita alla nostra esperienza otto anni fa, quando mi trascinò nelle Filippine a curare dei bambini grazie a quei medicinali che la stessa religiosa riuscì a raccogliere durante la sua permanenza dalla nostre parti. Io, che purtroppo non ho il dono della fede, arrivai sul posto e ben presto mi domandai quanto sarebbe durata quell’esperienza una volta finite le medicine portate da suor Marisa. Dopo la morte di un bambino chiamato Jimuel (da qui il nome dell’associazione) abbiamo pensato – ha spiegato Napoli – che era finito il tempo di discutere e bisognava fare qualcosa di concreto per queste persone in difficoltà e allora abbiamo utilizzato l’assistenza medica a distanza che nella struttura nella quale lavoro, ovvero lo Studio Radiologico di Siderno, usiamo da tempo per refertare gli esami diagonistici».
Tra i tanti ringraziamenti del medico Napoli, quello alla fondazione pisana “Arpa” che lavora in sinergia con Jimuel dalla città toscana «Nella quale – ha spiegato Sisì Napoli – si è di fatto spostato il baricentro delle nostre attività».
Prima di passare alle testimonianze di altri medici e protagonisti dell’attività in Kenya, c’è stato un collegamento via Skype proprio coi medici dell’associazione pisana che quindi hanno avuto modo di porgere il loro saluto, grazie ad un tablet.
I mezzi tecnologici saranno anche limitati, ma ciò che conta è il cuore grande di chi lavora in Jimuel, dei fedeli, dei missionari e dell’équipe medica africana. Perché la tecnologia, quando usata con intelligenza e altruismo, è una gran bella cosa.