di Gianluca Albanese
Sappiamo bene che quando si fanno certe considerazioni il rischio è quello di sminuire il valore della militanza politica e di fare il gioco di élite autoreferenziali e votate alla mera autoconservazione che ormai si annidano in quasi tutti i soggetti politici, ma comprendiamo bene la delusione espressa nella lettera a Fassina scritta da Pietro Sergi.
La comprendiamo perché tutti i giorni ci troviamo a contatto con tante persone che, come Pietro Sergi, avevano deciso di spendersi per la comunità e all’interno di un partito o movimento politico, per ritrovarsi poi intrappolate in un ginepraio di correnti, cortigiani, manovre di piccolo cabotaggio e, in alcuni casi, comitati d’affari.
Anche a sinistra.
In quella sinistra dei 40-50enni di oggi cresciuti a pane e diversità, concetto, quest’ultimo, che significava questione morale in primis, valori, ideali, preparazione teorica nelle scuole di partito, ideologia, rispetto dei ruoli, dialettica interna anche quando sfociava nel centralismo democratico.
Oggi no. Quelli come Pietro Sergi vanno via dal Pd accusandolo di essere diventato un partito liquido e postideologico plasmato dal suo uomo-immagine Renzi e si ritrovano a scontrarsi coi feudi di detentori di simboli di partito usati spesso come stemmi di famiglia. La nuova araldica che prende il posto dell’ideologia. Partiti più o meno personali in cui sai chi è il leader nazionale, le tre-quattro figure che vanno nei Tg e nei talk-show e poi, sul tanto decantato (a volte, a sproposito) territorio ti ritrovi leader regionali in cerca di una sistemazione in qualche struttura speciale, consiglieri regionali che sembrano infischiarsene delle regole del partito ma che vengono prima sostenuti, poi tollerati, quindi – ma solo a tempo scaduto – timidamente contestati da una base bella ma troppo spesso rassegnata.
La sinistra che si unisce per poter superare l’asticella dello sbarramento elettorale, troppo spesso imbarca di tutto: collezionisti di poltrone, passeggeri temporanei di un bus da abbandonare alla prima occasione per saltare su mezzi più solidi e ospitali, cortigiani in cerca di una sistemazione, sinistrorsi d’occasione.
E allora certo che Pietro Sergi e quelli come lui manifestano il proprio disagio. E l’impressione che Sinistra Italiana (frutto dell’unione di Sel, Futuro a Sinistra e il mondo dell’associazionismo) stia partendo, in Calabria, col piede sbagliato, è netta.
Come possano appassionare e indurre alla militanza uomini come Alfredo D’Attorre, dopo una vita trascorsa a fare l’uomo d’apparato dei democrat con un recente passato da commissario del Partito Democratico calabrese, o il consigliere regionale/provinciale Gianni Nucera (o qualche suo omologo nel Catanzarese e nel Cosentino), rappresenta per noi un mistero.
Certo, alcuni di loro sono legittimati dal consenso elettorale. Ma provando a immedesimarci nella mente (ma soprattutto nel cuore) di donne e uomini di sinistra, viene da chiedersi se sia meglio, ad esempio, un Partito della Rifondazione Comunista all’8% con Bertinotti leader (proprio quel Bertinotti che dieci anni dopo dichiara di non essere mai stato comunista e di collocarsi su posizioni tutt’altro che di sinistra) o quello attuale di Ferrero che fatica a raggiungere l’1% dei consensi ma che ha vertici che somigliano alla base che rappresentano.
Certo, all’epoca Bertinotti fece una tale carriera da diventare Presidente della Camera e Ferrero, per una breve parentesi, fu anche ministro. Poi, però, presero strade diverse.
Una sinistra in cui base e vertice rimangono distanti, estranei, e si guardano con diffidenza, fatichiamo a definirla sinistra. E sono tanti gli emuli di Bertinotti che la popolano e che si rivelano nella loro essenza solo alla distanza.
Ecco, quei fantasmi dei Bertinotti vaganti nella sinistra del XXI secolo agitano le coscienze dei militanti meno inclini al compromesso utilitaristico, fino a spaventarli e a farli scappare via.
E magari a rifugiarsi tra gli esorcismi dell’antipolitica.
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