di Mario Staglianò
Il vertice di Parigi dello scorso febbraio sull’intelligenza artificiale si è chiuso con una dichiarazione finale firmata da una sessantina di paesi del mondo – ma non da Usa e GB – dove si chiede che l’I.A. che si sta sviluppando sia “aperta, inclusiva ed etica “–open source– oltre che sostenibile socialmente e ambientalmente. Bello, giusto e, soprattutto, doveroso. Ma sempre il capitale e i suoi governi, nel passato più o meno recente, hanno raccontato la medesima favola, producendosi poi esattamente il contrario di quanto promesso.
Negli anni ’90 la favola sosteneva che la rete fosse libera e democratica per sua essenza e che, grazie alle nuove tecnologie, saremmo entrati in una nuova era di crescita illimitata, di minore fatica nel lavoro e di più tempo libero per tutti. E invece è accaduto (e non poteva non accadere, per l’essenza vera della tecnica, illiberale e anti-democratica in sé e per sé) esattamente il contrario: meno libertà (abbiamo rinunciato anche a difendere la privacy, che era elemento base della libertà dell’individuo), più sorveglianza (i data center servono per la raccolta e l’elaborazione dei dati di miliardi di persone, cioè per la loro sorveglianza e per il governo eteronomo della loro vita, dei loro consumi, delle loro idee), quindi meno democrazia (oggi il tecno-fascismo di Elon Musk e non solo), tutto con l’intensificazione del lavoro e la caduta della distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita. Una favola distopica e dispotica. Una favola però sempre ripetuta e sempre creduta da quasi tutti e, soprattutto, dai mass media e dalle università, dai politici e dagli intellettuali organici.
E anche oggi davanti all’ Intelligenza Artificiale e ai voleri dei tecno-oligarchi siamo a credere nella loro favola e ci rifiutiamo di analizzare i processi e la loro genealogia trovandoci nella condizione in cui è come se ci fosse stata una privatizzazione di fatto del futuro. La nostra presenza è prevista, forse anche richiesta, ma solo in qualità di spettatori. Un immenso pubblico mondiale al quale è concesso di fare il tifo, applaudire, fischiare ma non di partecipare al gioco cioè di poter invece decidere – consapevolmente e come soggetti immaginativi e quindi generativi – della loro storia. Non dimenticando, tuttavia, che il nostro essere solo spettatori di ciò che decide il tecno-capitalismo e che si impone come un dato di fatto immodificabile dura in realtà da tre secoli di rivoluzione industriale.
E quante volte politici e soprattutto ingegneri e imprenditori ci hanno detto che comunque “bisogna umanizzare la tecnica” ma fermarla mai mentre si stava creando il più gigantesco oligopolio di monopoli mai realizzatosi nella storia del capitalismo, con la disponibilità dei governi del mondo che hanno lasciato fare al capitale, de-regolamentando tutto ed espropriando sempre più ciascuno soprattutto del diritto alla libertà cognitiva, semmai accentrando sempre più la conoscenza nelle macchine stesse e negli algoritmi/I.A., quindi disumanizzando l’uomo come essere che dovrebbe essere dotato di capacità e possibilità di pensiero, per renderlo dipendente sempre più dalle macchine?
Una propaganda di industria e governi – via management e marketing e oggi social – che inevitabilmente ci rimanda a quella del gatto e della volpe cantata da Edoardo Bennato (stiamo in società/ di noi ti puoi fidar/ Puoi parlarci dei tuoi problemi, dei tuoi guai/I migliori, in questo campo siamo noi/ È una ditta specializzata, fa un contratto e vedrai/ Che non ti pentirai/ Noi scopriamo talenti e non sbagliamo mai […] Non capita tutti i giorni di avere due consulenti/ due impresari/ che si fanno in quattro per te…), per farci credere possibile l’impossibile – appunto, che la tecnica e il capitale siano libertari e democratici e che il gatto e la volpe vogliano davvero aiutare Pinocchio. Eppure continuiamo a credere che la tecnica sia liberante e non, come invece è per sua essenza, sempre più integrante e cioè sempre più totalizzante/totalitaria. Perché se non esistono più macchine singole, ma tutte le macchine e gli uomini con le macchine devono integrarsi e convergere in mega-macchine, l’esito non può che essere appunto totalitario in senso tecnico e capitalistico, molto più potente ma anche più invisibile di tutti i totalitarismi di integrazione politica del ‘900 – e sempre ricordando che quanto più siamo integrati in un sistema organizzativo, oggi digitale, meno siamo ovviamente liberi.
Oggi la speranza è scomparsa e vince la disperazione – o l’indifferenza, che è un’altra forma di disperazione. Per reagire dobbiamo conoscere le cause di questa disperazione. Che sono molte, ma che riguardano in particolare la società industriale oggi completamente automatizzata e amministrata da algoritmi e l’impotenza degli individui nei confronti dell’organizzazione, che oggi è diventata digitale e che, essendo totalizzante/totalitaria non lascia spazi alla libertà pur promettendo (di noi ti puoi fidar) il massimo della libertà. Necessario diventa allora mutare in primo luogo il modello culturale, economico e sociale dominante, dove invece l’alleanza tra l’impresa privata e il governo si fa così stretta che la distinzione fra le due parti sta diventando sempre più sfumata” (oggi scomparsa con Trump & Musk) e quindi il duemila può non costituire affatto il felice coronamento di un periodo durante il quale l’uomo ha combattuto per la libertà e la felicità, ma l’inizio di un’era in cui l’uomo cessa di essere umano e si trasforma in una macchina che non pensa e non sente ,come oggi ma sempre di più con l’I.A. e simili.
Il problema è che la tecnica e il capitale hanno altre idee sul nostro futuro. Che escludono a priori – da sempre – ogni possibilità di umanizzazione del sistema tecnico. E di sua democratizzazione. Arrivando oggi appunto al tecno-fascismo e a volerci sempre e comunque solo come spettatori. E tuttavia non possiamo e non dobbiamo rinunciare alla speranza e al suo essere appunto rivoluzionaria. Una speranza che forse inizia imparando a diffidare del gatto e della volpe e del loro “stiamo in società”.