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Palizzi, venerdì 6 giugno il convegno su: Islam politico, religione, identità, legittimità

5 Giugno 2014
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Tempo stimato: 7 min per leggerlo
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McDonald McDonald McDonald

di Redazione

PALIZZI – Si terrà venerdì 6 giugno alle 18, presso la sala consiliare del comune di Palizzi, il convegno dal titolo: Islam politico: religione, identità, legittimità. L’iniziativa patrocinata dal comune di Palizzi e dal Rotary club di Melito trae spunto dalle riflessioni sul volume di Glauco D’Agostino “La lunga marcia dell’Islam politico. Contropotere, rinnovamento religioso e dinamismo militante”, Gangemi Editore.

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A intervenire, dopo i saluti del neo eletto sindaco Walter Scebro e Erminio Fiumanò residente del Rotary,  Pasquale Amato, dell’Università di Messina, Giuseppe Bombino, dell’Università di Reggio Calabria, Giorgio Botta, Governatore Eletto Distretto 2100, Francesco Socievole, Presidente del “Mediterranean Peace Forum, con l’Autore, Glauco D’Agostino, modera Gianfranco Marino,giornalista.

 Per saperne di più

Inseguendo la cronaca, non si fa la Storia. Ogni qualvolta un avvenimento politico scuote una regione del mondo, mobilitando mass media e analisti internazionali sul fatto del giorno, il sensazionalismo del racconto ha l’obbligo di prevalere anche nella proiezione futura degli eventi, una specie di divinazione. Come se il futuro fosse radicato soltanto nel presente effimero e non anche nelle profondità del passato, con tutto il suo carico di formazione del pensiero, di lotte, di scontri, di contraddizioni e conferme, di cadute e resurrezioni. Questa considerazione riguarda anche e soprattutto l’argomento di questa pubblicazione: l’Islam politico, dove, facendo violenza alla correttezza semantica e cercando di uniformarsi alla terminologia corrente, il termine è volutamente usato in maniera impropria, considerando che l’Islam è politica o non esiste, citando l’Āyatollāh Khomeini.
Impossibile, infatti, non fare riferimento ai tragici avvenimenti in corso in Egitto, alla inusitata interruzione del percorso politico avviato per la prima volta nella sua storia senza riferimento ad un rais, alle affrettate interpretazioni avanzate da alcuni circa la sconfitta definitiva dell’Islam politico, appunto. Fino al deflagrare della cosiddetta Primavera Araba, le analisi convergevano nel considerare l’Islam un pericolo. Poi, l’accettazione della via democratica acquisita dagli Islamisti agitava qualche coscienza, evidentemente non tanto genuinamente democratica. Infine, dopo l’estromissione in Egitto del Presidente eletto e con la caduta della stessa concezione di legittimità democratica cui solo astrattamente si ispira il pensiero “occidentale”, giunge il verdetto: gli Islamisti hanno concluso il loro breve corso storico. È veramente così?
Cerchiamo di analizzare i fatti. L’acquiescenza non solo diplomatica (il che è comprensibile alla luce degli interessi nazionali e internazionali in gioco), ma dell’intellighenzia, dei cosiddetti intellettuali, degli storici, dei giornalisti, dei cronisti prima rispetto ai dispotismi laici dei vari ben Ali, Gheddafi, Mubārak o Saleh, e adesso perfino dell’ineffabile Sīsī, acquiescenza contrapposta al livore sputato in faccia ai movimenti islamisti, tutti o quasi nell’ultimo decennio accreditati di terrorismo o di complicità con questo, beh, proprio questa accondiscendenza alle interpretazioni del potere ha prodotto lo stupore rispetto alle insorgenze popolari del 2011 e alla resistenza del 2013.
E allora giù a compilare analisi, sempre naturalmente secondo canoni “occidentali”, per cui le rivolte arabe sarebbero state improntate all’insoddisfazione economica della gente, seguendo la lettura marxista; ma poi qualcuno si avvede che così non si spiegherebbe l’aspra rivolta libica, perché da quelle parti il divinizzato PIL era tra i più alti dell’Africa. E allora si scava nelle pieghe dei risvolti istituzionali, addebitando la rabbia popolare alla mancanza di fondamenti democratici, magari di tipo anglosassone; ma subito dopo qualche altro si ricorda che forse l’Arabia Saudita non ha come modello Buckingham Palace e pure non si registrano né rivolte “arancioni” o “indignadas”, né pressioni della comunità internazionale per tale “grave difetto”. Ah, ecco, è la condizione della donna che è il discrimine, naturalmente in confronto agli standards svedesi del 47% di presenza femminile nel Riksdag; ma poi, con notevole disappunto, qualcuno a denti stretti ammette (quando lo divulga!) che il partito islamista Ḥizb an-Nahḍa in Tunisia elegge tra i suoi parlamentari 39 donne su un totale di 49 seggi occupati da donne in Parlamento.
Non è compito di questo saggio analizzare né le cause né lo svolgimento della Primavera araba, che si lasciano le une ai politologi, l’altro ai compilatori di resoconti giornalistici e di libri di cronaca romanzata. L’intento è quello di presentare i protagonisti di un filone di contropotere e rinnovamento islamico, sempre presente nella Storia dei Musulmani, che potrebbe avere innescato, anche oggi, non una semplice ribellione frutto di aneliti libertari, ma una matura rivoluzione contro poteri non rappresentativi della sensibilità e, in definitiva, della civiltà che il pensiero islamico permea nel divenire dell’esistenza dei fedeli del Profeta.
Certo, difficile per i cultori dell’astratta ideologia illuminista e per i fautori del pensiero unico (naturalmente sempre quello “tardo-occidentale”) calarsi nella realtà pratica e nel realismo vitale islamico, tutto proiettato verso il Tawḥīd e l’Ḥaqq. Ma, se si guarda al corso delle vicende, queste correnti “anticonformiste” e protestatarie hanno attraversato l’intero svolgimento della Storia politica islamica, anche e soprattutto quando il potere istituzionale era o è gestito da governanti musulmani. Nel recente passato, poi, le frequenti usurpazioni di sovranità da parte dei dispotismi laici (con l’assenso dei paladini dei diritti umani!) hanno esacerbato una situazione di emarginazione delle istanze e dei movimenti islamici, tali da condurre alla ricerca di soluzioni eterogenee tra loro, più o meno ortodosse.
Cosa c’entra, con questo, la piazza? Mīdān at-Taḥrīr ha rappresentato dal 2011 il simbolo dell’azione rivoluzionaria, l’emblema dell’aspirazione alla libertà di pensiero rivendicata; ma possono i suoi martiri essere considerati antitetici allo sforzo di cinquanta anni di scontri, latitanze, carcerazioni, deportazioni, esili, torture, condanne a morte, uccisioni personalizzate e via via con efferatezze di tal genere? No, essi sono, come lo sono i nuovi martiri di Rabi`a al `Adawiyya e an-Nahḍa, la sintesi di decennali lotte contro subdoli nemici interni ed esterni al mondo musulmano. Se non si capisce questo, si rischia di banalizzare gli eventi alla stregua di qualsiasi altra rivolta di natura economica o ideologica di cui il mondo globalizzato è colmo.
La legittimazione democratica, poi, non può essere un bene da consumare soltanto quando fa comodo. O la si accetta incondizionatamente o la si rifiuta, screditando gli ideali per cui si dice di battersi. Per questa ragione serve la conoscenza della Storia, più che episodicamente sottaciuta o sottovalutata nei suoi significati espliciti e reconditi. La partecipazione democratica dei vari movimenti islamisti è stata continuamente ed estesamente richiesta alle autorità, ma mai accordata dai regimi laici, per esempio, ai Fratelli Musulmani in Egitto, al Mouvement de la Tendance Islamique e ad an-Nahḍa in Tunisia, al movimento Umma in Mauritania; e tutti ricordiamo la tragica esperienza nel 1992 del Front Islamique du Salut in Algeria, risultato largamente vincitore della competizione elettorale, esperienza finita nei campi di concentramento sahariani.
Eppure, quando e dove ciò è stato consentito, non era difficile cogliere i successi di Ḥizb Allāh in Libano e di Ḥamās in Palestina e la sorprendente ascesa dei Fratelli Musulmani anche nell’era di Mubārak (quando in Egitto si presentavano da singoli indipendenti), con il Parti de la Justice et du Développement in Marocco e con il Tawassoul in Mauritania. Eppure, i germi di queste autentiche rivoluzioni democratiche delle coscienze popolari non sono stati colti dagli intellettuali e dai media di cui sopra, nella considerazione dei quali, invece, il surge islamista era semplicisticamente sinonimo, o quanto meno fonte, di terrorismo.
Analisi sbagliate, dunque, o quanto meno insufficienti a cogliere lo spirito di rivendicazione certo, ma soprattutto di proposizione della costruzione del proprio futuro, come aveva dimostrato il ruolo, autorevole ed equilibrato, del Presidente Morsi nella crisi di Gaza dell’anno scorso. Qualunque sia l’esito del confronto in atto in Egitto per la riconquista della legittimità democratica, a lui e alla saggia conduzione di Muḥammad Badi‘, riservata Guida dei Fratelli Musulmani, dobbiamo l’uscita da una ristretta concezione politica, circoscritta nell’ambito degli angusti confini delle singole nazioni.

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