di Gianluca Albanese
SIDERNO – Dalla prima metà degli anni ’80 alla prima dei ’90 Siderno aveva una cosa in comune con Londra: il numero delle squadre di calcio e discipline simili. Quasi una per ogni quartiere. Dev’essere stata la scia di entusiasmo della vittoria ai Mondiali di Spagna ’82, che rappresentarono sopratutto un grande momento di aggregazione.
Tra i primissimi che “si misero in proprio” rispetto all’allora “A.C. Siderno” ci fu un gruppo di ragazzi dell’epoca che per sei mesi all’anno giocavano in un campetto ricavato in quell’ultimo lembo di crosta che precede la spiaggia: a est la sabbia e a ovest lo sterrato della strada che, per fortuna, ancora oggi è rimasta inalterata.
Il terreno su cui sorgeva il campo, invece, venne spazzato via da una violenta mareggiata.
Ci volevano piedi buoni per giocare in quel campo tutto aperto e in terra battuta ma con delle porte “vere” con le reti, perchè era molto facile che il pallone finisse nel canale tra i rovi se non si riusciva a centrare la porta. Mentre nella porta opposta bastava farsi qualche decina di metri, dopo un perentorio «Va’ ricogghila» per recuperarlo.
Quando non si giocava veniva utilizzato come parcheggio dei tanti “Vesponi” targati “CR” che avevano percorso migliaia di chilometri per trascorrere le vacanze estive. Dalla Pianura padana al mar Jonio, da Casalmaggiore a Pantanizzi.
Trait d’union di questo vero e proprio gemellaggio tra la frazione più marina di Siderno e la cittadina dei “casotti” sul Po, l’allora studente dell’università di Parma Peppe Ieraci, un autentico fuoriclasse sul campo di calcio perchè negli anni degli studi fu l’indiscusso numero 10 della Casalese.
Una volta rientrato a Pantanizzi, Ieraci fu tra i promotori dell’omonima squadra di calcio, che si allenava nel “Campo di D’Agostino” dove attualmente sorge il parcheggio del supermercato MD. Aveva le dimensioni di un campo dell’odierno “calciotto”, era opportunamente recintato e, sebbene fosse di proprietà privata dell’industriale Vincenzo D’Agostino, veniva dato in uso alla squadra dell’Fc Pantanizzi e anche a gruppi di ragazzini fidati, complice la passione per il calcio del figlio minore Angelo.
Era l’autunno del 1983 quando dalla fabbrica di magliette che riforniva la Cremonese – allora presenza fissa in serie A (e nella quale crebbero giocatori come Chiorri e Vialli) – arrivò un carico di altre maglie grigiorosse: quelle del Pantanizzi. I colori sociali furono sì un omaggio alla Cremonese, ma strizzavano l’occhio anche al rosso della sinistra extraparlamentare, che a Pantanizzi aveva molti epigoni, tra cui ricordo un certo Lentini, militante di Democrazia Proletaria, che associavo nella presenza a Socrates, il campione-filosofo della Fiorentina e del Brasile.
Era una bella squadra quel Pantanizzi che esordì nel campionato di Terza Categoria giocando subito per la vittoria. Allenata da un medico galantuomo con la passione per il calcio come Pino Falzone, schierava (se la memoria non gioca brutti scherzi dopo quasi quarant’anni) Pino Rupolo in porta, in difesa ricordo Peppe e Angelo D’Agostino, Peppe Ieraci fantasista e in attacco Rodi e una punta di peso come Mimmo Coluccio.
Mi scuseranno gli altri, ma oggi, dopo 38 anni, ricordo solo questi.
E ricordo anche Peppe Figliomeni, ala destra che veniva schierata nei secondi tempi e che spesso rappresentava la carta vincente.
Presidente del Pantanizzi era il compianto Celestino Napoli, ferroviere di origine locrese, gentiluomo d’altri tempi.
La storia del Pantanizzi durò un paio di stagioni, ma rappresentò comunque una sfida vinta: quella di una squadra di quartiere che diede del filo da torcere a tutte le formazioni del gradino più basso del calcio dilettantistico, costituendo l’esempio per molte altre squadre di quartiere che nacquero subito dopo, dall’Ac Campagna della zona Ovest della città, fino alla Palmas del “Roy Hodgson” locale Pasquale Sgrò, o alla Jonica, che era una diretta emanazione dell’Ac Campagna, con in più la velleità di aggregare le squadre del comprensorio per comporre un’unica formazione in grado, col tempo, di ambire a campionati professionistici.
Nel frattempo, passata l’onda lunga del “mundial” spagnolo, ci fu la delusione di quello messicano dell’86 e il ritrovato entusiasmo del campionato del mondo del 1990 in Italia.
Una stagione di grande vitalità sportiva a Siderno.
L’estate pullulava di tornei estivi: da quelli sul lungomare a quelli, ben più infuocati, che si tenevano nelle frazioni, come il torneo del Mirto, che nelle sere d’estate richiamava migliaia di spettatori.
Io assistevo ai tornei sul lungomare, cimentandomi, quasi ventenne, nelle prime telecronache amatoriali dei tornei nel campetto alla fine del lungomare lato Nord, quando riprendevamo le partite in cui giocavano i nostri amici, con una videocamera amatoriale Hitachi, che funzionava a cassette VHS.
Una sera di quelle vidi il Caciacio con un gigantesco boccale di birra appena acquistato al chioschetto vicino, che preparava pizze e bibite in un punto strategico, tra il campetto e l’acquascivolo.
Quando gli chiesi il perchè di quella inusitata dotazione, mi rispose che «Fazzu comu i ‘ngrisi» alludendo al fenomeno degli hooligans britannici, particolarmente temuti per le loro scorribande alcoliche ai Mondiali del ’90.
Era opinione diffusa che non fosse stata destinata per caso nel girone che giocava tra Cagliari e Palermo la formazione inglese. Per la serie: fate meno casino che siciliani e sardi non ci mettono nulla a rimettervi in riga, cari uligani!
Ma al di là di questi aspetti locali, il 1990 rappresentò una sorta di normalizzazione dopo il difficile momento vissuto dalla città nella seconda metà degli anni ’80.
La gente aveva voglia di serenità e di aggregazione, e iniziò allora la bella abitudine di vedere le partite dei Mondiali insieme, nei maxischermi allestiti nei locali all’aperto, come la Villa, vicino alla stazione, laddove trascorremmo tante “notti magiche” in compagnia e in allegria e delle quali serbiamo comunque un buon ricordo, nonostante le uscite a vuoto di Zenga, il goal di Caniggia e l’antitalianità espressa da Maradona nella semifinale del San Paolo.
Trascorsero quattro anni e per noi cambiò poco: sempre tutti insieme a vedere le partite alla Villa, con le uniche differenze rappresentate dall’orario delle partite (tutte di pomeriggio, visto il fuso orario) e dalla guida tecnica della Nazionale, affidata ad Arrigo Sacchi.
Finì con i rigori sbagliati in una finale calda e umida, con tutti i riferimenti musicali del caso, dal De Gregori de “La leva calcistica della classe ’68” a Elio e le Storie Tese che erano gli autori delle sigle di “Mai dire gol”, trasmissione di culto dell’epoca, la prima che riuscì a fare ironia in Italia sul mondo del calcio.
Ma il 1994 portò un’altra bella novità.
Genova, nella prima metà degli anni ’90, era la vera capitale del calcio italiano.
La Sampdoria di Boskov aveva vinto il campionato, trascinata da Vialli e Mancini, e il Genoa di Bagnoli aveva fatto appassionare l’Italia intera. Fu una delle squadre più amate di sempre, della quale, ancora oggi, ricordo molti titolari, dal portiere Braglia, ai difensori Collovati – sì lui: il campione del mondo dell’82 – Caricola, Panucci e Torrente. Ma soprattutto i compianti Andrea Fortunato e Gianluca Signorini; le punizioni le tirava il brasiliano Claudio Branco, e per i portieri erano…cazzi!
A centrocampo Bortolazzi, Eranio e Onorati, sulla fascia destra imperversava Gennarino Ruotolo e in attacco “Pato” Aguilera e Tomas Skuravy erano l’incubo delle difese avversarie.
Simpatizzai per quella squadra spontaneamente, anche se gli amici genovesi della spiaggia, dal compianto Davide al “bomber” Max invitavano me e gli altri juventini a vedere “Twin Peaks” (sceneggiato dell’epoca) il mercoledì in Tv, alludendo all’incapacità della Juve dell’epoca di qualificarsi per le coppe europee.
Nella Genova di quel tempo studiava all’Isef (attuale facoltà di Scienze Motorie) il mio amico Massimo Stalteri, un passato da promettente mediano e un presente da preparatore atletico nel massimo campionato rumeno.
Un pomeriggio d’estate riunì la comitiva in un tavolo esterno de “La Villa” e lanciò la sua proposta: «Dobbiamo fondare una società di calcio a cinque:a Genova sta andando fortissimo ed è lo sport del futuro».
Io non avevo idea di cosa si trattasse, ma accettai per spirito di gruppo.
Formammo presto la società, c’eravamo io (segretario/addetto stampa), ovviamente Massimo Stalteri e Andrea Racco, Francesco Riccio nel ruolo di cassiere, Tano Panetta dirigente e preparatore atletico e Filippo Diano presidente.
Al nome di Filippo si legano gli anni più belli di quella esperienza. Conoscerlo fu una piena immersione nel mondo del marketing e dell’impresa applicata al mondo dello sport, ma anche a un universo di risate e scherzi sia nei momenti di aggregazione coi giocatori che nelle interlocuzioni con l’esterno, non ultima la federazione.
Ancora oggi ricordo quando, in mia presenza, telefonò al delegato della Figc Calabria dopo che l’omologatore inviato da loro, non approvò il campo da noi scelto per le partite ufficiali perchè gli spogliatoi non comunicavano col rettangolo di gioco.
Era un “niet” che, di fatto, c’impediva di giocare nel campo prescelto e che non accettavamo, stante la regolarità nel pare le quote associative e la correttezza da sempre dimostrata.
Ricordo benissimo che alzò il telefono, e quando il delegato federale rispose, Filippo si produsse in una serie infinita di ringraziamenti per l’invio dell’omologatore:«Una persona meravigliosa, correttissima, squisita, eccezionale…» e così via. Sembrava serio. Un attore nato, fino a quando cambiò repentinamente il tono della voce per dire testualmente «Ma cu cazzu ‘ndi mandastivu?».
Fu l’inizio di un’interlocuzione che valse l’omologazione del campetto di contrada Lamia (Centro Sportivo Commisso) che con la sua tribunetta metallica costituirà lo “stadium” di tante stagioni, col padre del presidente, il mitico “don Ciccio” Diano che durante le partite indossava i panni dell’ultrà e sfotteva selvaggiamente avversari e arbitri, ma sempre con grande ironia.
Furono anni di scontri epici con avversari ostici e mai ospitali, come le squadre di Reggio e Soverato, leali, come Taurianova e Rosarno, corretti, nonostante la carica campanilistica, come il Locri, e di trasferte lunghissime come Figline Vegliaturo e Rossano, giusto per citarne alcune.
Ma Siderno divenne una delle piazze più importanti del calcio a cinque regionale, che si contraddistingueva per lo stile e l’organizzazione. Nel 1994 avevamo tutti le tute sociali dell’Asics, i calciatori erano equipaggiati di tutto punto e noi dirigenti avevamo anche la giacca blu col logo della squadra ricamato sul taschino. Una ventata di professionismo tra i pionieri di una disciplina per forza di cose dilettantistica.
Fu terribile e rispettoso nello stesso tempo indossare quelle giacche il giorno in cui, appena quattro anni dopo la fondazione della squadra, portammo a spalla il feretro del povero Filippo, stroncato da un male incurabile a 33 anni.
Fu una doccia gelida, che ci fece capire che la morte non guarda in faccia nessuno, nemmeno i giovani capaci, brillanti, allegri e spiritosi come lui.
La squadra proseguì la sua attività per diversi anni, e ora il nome del calcio a cinque sidernese viene portato avanti dalla Fantastic Five fondata da Carlo Albanese, segno che passano gli anni, ma la passione di una città per lo sport è sempre viva. Nonostante tutto.