Il paradosso del 118 in Calabria
di Serena Misiti
C’è un momento, durante un intervento di emergenza, in cui il tempo sembra sospendersi. Quello è l’attimo in cui il 118 gioca la sua partita più importante: tra la vita e la morte, tra il caos e la speranza. Ma cosa succede quando anche chi dovrebbe incarnare questa speranza – i medici- sceglie di non giocare più?
Le recenti dichiarazioni del presidente Roberto Occhiuto hanno portato alla luce una realtà che gli operatori sanitari calabresi conoscono fin troppo bene: a un avviso per reclutare 159 medici nell’ambito dell’emergenza/urgenza hanno partecipato pochissimi professionisti (13 per la precisione) e, tra questi, ancora meno potrebbero accettare l’incarico. Non migliori le sorti delle guardie mediche, per cui servirebbero 574 medici in tutta la Calabria, ma ne sono stati reclutati solamente 28 a novembre e 16 a dicembre, nei vari avvisi regionali, stando alle dichiarazioni del presidente della Regione Calabria. Una risposta che risuona come un “no” collettivo, un rifiuto che non può essere liquidato come una semplice questione personale, ma che parla di un sistema che non attrae, non valorizza e, soprattutto non ascolta.
Il rifiuto come sintomo di un problema più profondo
In filosofia, il concetto di “rifiuto” è spesso associato a una forma di protesta. Albert Camus, nel suo celebre “Il mito di Sisifo”, scriveva che il primo atto di libertà è dire “no”. Ecco, forse i medici che scclgono di non lavorare per il 118 calabrese stanno, inconsapevolmente, interpretando questa forma di ribellione. Un sistema sanitario che non offre sicurezza, dignità e prospettive può dificilmente aspettarsi fedeltà e dedizione.
I motivi del rifiuto sono evidenti e molteplici:
• Condizioni contrattuali precarie: contratti a tempo determinato, stipendi non competitivi, assenza di incentivi per chi lavora in territori complessi.
• Carichi di lavoro insostenibili: turni massacranti e un sovraccarico cronico di responsabilità, senza il supporto adeguato di personale e risorse.
• Logistica proibitiva: la Calabria è una terra meravigliosa, ma difficile. Strade dissestate, aree interne difficili da raggiungere e tempi di percorrenza lunghi non solo mettono a duea prova gli operatori sanitari, ma compromettono efficacia stessa del servizio.
In queste condizioni, il rifiuto non è solo comprensibile: diventa inevitabile. È il grido di un sistema che implode, un urlo che chiede riforme strutturali e non soluzioni tampone.
E le ambulanze senza medico? Stop alla demonizzazione
Nel dibattito sul futuro del 118, un aspetto spesso sottovalutato, o volutamente ignorato, è il ruolo degli infermieri. La percezione comune, alimentata da una legislazione restrittiva e da una scarsa cultura sanitaria, tende a demonizzare le ambulanze senza medico a bordo, come se fossero un ripiego, o peggio, un fallimento del sistema. Eppure, la realtà è ben diversa.
Gli infermieri del 118 non sono semplici esecutori, ma professionisti altamente specializzati, formati per gestire situazioni di emergenza e capaci di compiere interventi che, in molti casi, possono essere risolutivi. In altri Paesi, come nel Regno Unito, negli Stati Uniti, il paramedic advanced practitioneron (in pratica, l’infermiere specializzato) è una figura riconosciuta e valorizzata, dotata di un ampio margine di autonomia decisionale e operativa.
In Italia, invece, le competenze infermieristiche vengono spesso limitate da una legislazione che non riflette né la preparazione né l’esperienza sul campo di questi professionisti. Questa rigidità legislativa rimane indietro, arranca e fatica mentre il mondo e l’innovazione corrono davanti a lei. Non solo frena l’efficienza del sistema, ma perpetua anche I’idea che senza un medico a bordo l’emergenza non possa essere affrontata adeguatamente.
Investire negli infermieri potrebbe rappresentare una soluzione concreta, ma per farlo è necessario: ampliare le competenze operative permettendo agli infermieri di assumere un ruolo più attivo nelle decisioni cliniche, incentivare la specializzazione e riconoscere economicamente il valore del loro lavoro.
Il 118: un baluardo che rischia di crollare
Il 118 non è solo un numero da chiamare in caso di emergenza. È una promessa. È la certezza che, nel momento del bisogno, qualcuno sarà li per aiutarti, per salvarti. Ma cosa succede quando questa promessa vacilla?
La carenza di medici si traduce in un circolo vizioso: meno personale significa più turni lunghi e stressanti per chi rimane, con un conseguente aumento del rischio di burnout. E quando anche chi resiste non ce la fa più, il sistema collassa. Gli ffetti di questa crisi sono già evidenti: tempi di intervento più lunghi, ambulanze che restano ferme per mancanza di equipaggi completi o per il collasso dei presidi ospedalieri, e un senso di sfiducia crescente tra la popolazione. In un territorio come la Calabria, dove la rete ospedaliera è fragile e le distanze si misurano spesso in ore anziché in minuti, il ruolo del 118 è ancora più cruciale. Ogni ritardo, ogni ambulanza che non parte in tempo, può fare la differenza tra la vita e la morte.
Ripartire dalle persone: la sanità come vocazione e investimento
La domanda, a questo punto, non è più perché i medici rifiutano? Ma cosa possiamo fare per farli ritornare? Una risposta potrebbe trovarsi nel pensiero di Aristotele, altro grande pensatore, che vedeva la felicità (e quindi la motivazione) come il risultato di un equilibrio tra virtù e circostanze favorevoli. In altre parole, anche la vocazione pià forte ha bisogno di un terreno fertile per crescere. Cosa significa questo concretamente?
Incentivi economici e contrattuali: offrire contratti stabili, stipendi competitivi e incentivi economici per chi sceglie di lavorare nelle aree più disagiate; valorizzazione del personale: investirc sulla formazione continua, garantire supporto psicologico per prevenire il burnout e riconoscere il valore sociale ed economico del lavoro svolto; innovazione tecnologica: sperimentare soluzioni innovative, come l’uso della telemedicina o dei droni per raggiungere le aree più remote, e introdurre figure miste (ad csempio, infermieri specializzati in emergenze) per integrare le equipe mediche.
Ma più di tutto, serve un cambiamento culturale. La sanità non può essere vista come un costo da contenere, ma come un investimento fondamentale per il futuro della comunità.
Conclusione: un appello alla speranza (e all’azione)
La crisi del 118 in Calabria non è solo un problema sanitario: è uno specchio delle nostre priorità come socictà. È la prova che, senza un sistema capace di sostenere chi lavora in prima linea, le emergenze non si affrontano, si subiscono.
Tuttavia, ogni crisi porta con sé un’opportunità. Questa potrebbe essere l’occasione per ripensare il nostro modello sanitario, per restituire dignità e valore a chi si dedica agli altri, spesso sacrificando se stesso e le sue priorità.
La vera rivoluzione del 118 non passa solo dal reclutamento di più medici, ma dal ridisegnare un sistema in cui tutti i membri dell’équipe siano messi in condizione di esprimere al meglio il proprio potenziale. Continuare a vedere l’infermiere come una figura subordinata, un “aiutante” medico, significa sprecare una risorsa preziosa e ignorare una realtà che è diventata avanguardia a pochi passi dalla nostra Nazione. L’emergenza sanitaria è un lavoro di squadra.
Il 118 è il cuore pulsante dell’emergenza. Ma anche il cuore più fort ha bisogno di cure. E se iniziassimo a prendercene cura davvero?