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Home Costume e Società

I FIGLI DELLA ‘NDRANGHETA Un libro sul protocollo “Liberi di scegliere”, per dare un futuro ai “bambini a metà”

26 Febbraio 2016
in Costume e Società
Tempo stimato: 6 min per leggerlo
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di Maria Antonella Gozzi

GIOIOSA IONICA – Siamo in grado di sostenere, oltre ogni ragionevole dubbio, che è e sarà sempre la ‘ndrangheta a vincere?

Inizia con una domanda dalle sfumature rétro – a tratti romantica – la serata dedicata alla presentazione del saggio “Bambini a metà. I figli della ‘ndrangheta”, scritto dalla giornalista Angela Iantosca e ispirato al Protocollo “Liberi di scegliere”, promosso dal giudice Di Bella del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria.

Già: rétro, per il richiamo a un dilemma che affonda le sue radici ormai in un lontano passato; romantica, perché la sola sua formulazione infonde speranza al pari di un acerbo sentimento.

L’incontro a Palazzo Amaduri, patrocinato dal Comune di Gioiosa Ionica, dal Coordinamento di “Libera Locride” e curato dall’associazione “Don Milani”, ha registrato la numerosa partecipazione di giovani, segno che l’interesse alla tematica sta prendendo piega nelle nuove generazioni.

Dopo i saluti istituzionali e ringraziamenti del vice sindaco di Gioiosa Ionica, Maurizio Zavaglia, che ha richiamato l’attenzione sulla centralità del ruolo che lo Stato deve avere per la prosecuzione del protocollo “Liberi di scegliere”, la parola passa all’autrice del saggio, la giornalista Angela Iantosca, che ripercorre la genesi dell’importante documento.

“Il protocollo nasce nella Locride – spiega la giornalista – dall’idea avuta e sviluppata dall’allora Giudice Di Bella al termine di un processo penale a carico di un minore e conclusosi con una condanna. Era il 2004”. “E’ stato il minore, figlio di una potente famiglia di ‘ndrangheta – aggiunge – a voler parlare con il Giudice che lo aveva condannato. Era un ragazzo fragile e chiedeva disperatamente aiuto. Di Bella gli dice di scontare prima la sua pena, promettendo un suo futuro aiuto e sostegno”.

Sono gli anni terrificanti del “suicidio-omicidio” della rosarnese Maria Concetta Cacciola, collaboratrice di giustizia per amore dei suoi tre figli – probabilmente uccisa dalla famiglia ‘ndranghetista dalla quale voleva disperatamente fuggire – quando il Giudice Di Bella, all’esito del processo civile che riguarda il minore a cui viene dato lo pseudonimo di “Carmelo”, ravvisando tutti gli elementi per sottrarre lo stesso dalla responsabilità genitoriale, lo affida alle cure di una Comunità di Messina. Inizia così la sperimentazione.

“I primi problemi quando s’inizia il percorso di rinserimento sociale – spiega la Iantosca – sono di natura alimentare. Rifiutano il cibo, o lo vomitano subito dopo. Ma sono ubbidienti. I minori vengono affidati alle cure di due persone, di cui una è uno psicologo molto giovane, di solito un trentenne: deve dare l’idea di essere un fratello maggiore”.

Secondo il protocollo di sperimentazione, il minore viene messo in condizione di conoscere tutto ciò che è al di fuori della propria esperienza familiare. Il passaggio è da una vita scandita da crimini efferati e lutti, a una vita normale. Tant’è che, se all’inizio del percorso le due uniche prospettive sono il carcere o la morte, al termine dell’esperienza, i minori sviluppano sentimenti comuni ai loro coetanei più fortunati: emozioni, amore per la mamma, indecisione su cosa fare una volta grandi.

Per Don Pino De Masi, referente di Libera, le mafie sono un fenomeno umano e, come tutti i fenomeni umani, è destinato per natura a finire. “Sì, ma la partita può essere vinta solo se non si perde la battaglia dei figli”, afferma. “Sulla partita dei figli noi segniamo la data della sconfitta delle mafie”.

 Parla della sua esperienza d’insegnante, iniziata a ventiquattro anni in una scuola di Rosarno e frequentata da molti figli di famiglie ‘ndranghetiste. Un’esperienza che segna la vita di molte persone, prima fra tutte quella del sacerdote che la racconta ma, soprattutto, dei figli di quelle famiglie “potenti”, al cui cognome la loro vita sembra essere ormai ipotecata.

Senza nemmeno conoscerne gli sviluppi, l’impatto che avrebbe avuto sulle vite d’insegnanti e scolari, Don Pino e qualche collega decidono con coraggio di affrontare una situazione davvero difficile: avevano appena deciso di trasformare la scuola in una comunità, una realtà aggregante, nel tentativo disperato di togliere la pistola dalle mani e sostituirla con la voglia di ricominciare.

Si scaglia contro la pseudo-battaglia all’anti-legalità, quella dei progetti che hanno trasformato la scuola italiana un megafono di messaggi fini a sé stessi, che hanno confuso di più i giovani e che – inconsapevolmente – anziché sviluppare una sana coscienza del problema, alimentano paura e inadeguatezza. Si riferisce all’esempio pratico, che manca, insieme alla volontà di costruire una scuola che dia serio sostegno alle famiglie.

“Non cadiamo nei luoghi comuni, afferma Don Pino, che vorrebbero farci immaginare i figli degli ‘ndranghetisti come persone prive di una precisa identità. Non è così. Essi sono i destinatari di un preciso progetto educativo; le loro famiglie hanno una loro pedagogia. E la scuola ha l’obbligo di contrastarla con un nuovo, efficiente ed efficace progetto educativo”.

 Le ultime parole del suo intervento s’incentrano sulla necessità che il Progetto “Liberi di scegliere” divenga legge e che la sperimentazione sia estesa a tutti i Tribunali calabresi e a quelli siciliani e campani.

Attualmente sono 30 i minori in fase di sperimentazione; alcuni affidati a Comunità operanti nel territorio calabrese, altri vengono affidati alle cure di famiglie del nord Italia, quando i rischi di contatto con le famiglie ‘ndranghetiste sono elevati e particolarmente pericolosi per i minori.

Non teme giudizi il Protocollo “Liberi di scegliere”. Il suo scopo, infatti, non è recidere i legami di sangue tra i minori e le loro famiglie d’origine, come le più aspre critiche vogliono far credere, ma esclusivamente quello di consentire loro il recupero della parte di personalità mancante, quella negata e usurpata. A 18 anni, i figli dei mafiosi, figli “adottivi” dello Stato, sono di nuovo “liberi”. Liberi di decidere quale strada percorrere, quale vita vivere. Liberi ed in condizione di capire se impugnare una pistola, ricattare, corrompere e uccidere sia il loro destino o se il progetto educativo, scritto per loro, dai padri e dalle madri mafiose debba essere sostituito da una speranza nuova per sé e per i propri figli.

 Il saggio “Bambini a metà. I figli della ‘ndrangheta”, di Angela Iantosca è edito dalla Giulio Perrone.

 

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