di Gianluca Albanese
LOCRI – Con le arringhe delle difese degli imputati Commisso Rocco, Tavernese Rocco e Verbeni Giovanni (oltre che del già citato Cosimo Cherubino) si è conclusa la fase difensiva del processo “Falsa Politica” che il prossimo 16 marzo lascerà spazio alle repliche del Pm e alla sentenza che è attesa per la stessa giornata.
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Ha aperto i lavori l’avvocato Mario Santambrogio, difensore di Rocco Commisso, figlio di Giuseppe detto “il mastro”, evidenziando come il suo assistito «Non sia mai stato seguito, attenzionato o visto insieme a personaggi d’interesse investigativo. Non andava nemmeno ai matrimoni e ai funerali degli ‘ndranghetisti – ha proseguito l’avvocato Santambrogio – e sembrava che fosse ignorato dal padre, non solo sotto il profilo potenzialmente ‘ndranghetistico, ma anche affettivo».
Quindi, Santambrogio si è soffermato su un’intercettazione in cui tale Tavernese parlava col “mastro” e che gli chiedeva se il figlio avesse un ruolo nella società di ‘ndrangheta sidernese.
«Non sfuggirà alla vostra attenzione – ha detto l’avvocato rivolgendosi al tribunale – come la risposta di Commisso Giuseppe sia stata evasiva, limitandosi a dire che il figlio era “attivo” ma senza specificare eventuali cariche ricoperte nella società. Evidentemente, conoscendo le logiche della consorteria criminale, il “mastro” si vergognava di dire che il figlio fosse estraneo alla ‘ndrangheta e ha risposto con una bugia per non sfigurare davanti al proprio interlocutore, esprimendosi in maniera molto evasiva e sbrigativa».
Quindi, è stata la volta dell’avvocato Antonio Speziale, difensore di Tavernese Rocco detto “Robertino”. «A carico del mio assistito – ha detto l’avvocato – non ci sono chiari indizi di colpevolezza, ma solo due intercettazioni in cui Carmelo Muià detto “Mino” parlava di lui come l’unico della famiglia Tavernese su cui poter fare affidamento. Poi, lo stesso Muià farneticava quando diceva che doveva organizzare una cena a casa sua con 50 giovani di contrada Ferraro, ma senza invitare il cugino del mio assistito, ovvero l’ex consigliere comunale Peppe Tavernese, per fargli un dispetto. Ma non c’è prova che quella cena fosse stata svolta – ha precisato Speziale – e lo stesso “mastro” non diede retta a Muià quando ne parlava. Se davvero Tavernese Rocco fosse stato intraneo alla “ndrangheta sidernese – ha concluso l’avvocato – avrebbe preso parte al summit che si tenne nella primavera del 2010 al ristorante “Casa del Gourmet”, a pochi passi da casa sua, e invece non fu invitato, perchè è estraneo a qualsiasi interesse investigativo». Tesi, queste, riprese e approfondite dall’altro difensore di Tavernese, ovvero Gianni Russano.
Per la difesa di Verbeni Giovanni, l’avvocato Sergio Contestabile ha detto che «In oltre 50 anni di vita non è mai stato visto nemmeno prendere un caffè al bar con dei mafiosi e non è mai stato attenzionato dagli inquirenti e non esistono elementi tali da ritenerlo associato alla ‘ndrangheta. Gli stessi dialoghi intercettati non sono quelli tipici di uno ‘ndranghetista».
L’altro difensore di Verbeni, l’avvocato Armando Gerace, ha aggiunto che «Verbeni non è mai stato a disposizione del “mastro” dal punto di vista elettorale e quando parlava in quel modo nei dialoghi intercettati era solo per darsi un tono. Un atteggiamento tipico di quelli della sua generazione e non ci sono nemmeno prove del fatto che un suo zio di Palizzi, tale Altomonte, fosse nella “commissione” ed avesse un potere di condizionamento del voto come un interpretazione errata dei dialoghi intercettati vorrebbe dimostrare».