di Patrizia Massara Di Nallo
In Calabria abbiamo mille e una storia da raccontare e molte di queste hanno la prerogativa di far convivere antico e moderno, passato e futuro, evocando tradizioni culturali e intrinseci valori che spesso hanno dato origine ad imprese, lavoro e successo. Un esempio, di laboriosità e inventiva così come di artigianalità e perseveranza, è quello della liquirizia targata Amarelli, nome indissolubilmente legato da tre secoli a quello del cosiddetto “oro nero”calabrese”: la liquirizia appunto. Una famiglia , quella Amarelli, che affondando saldamente le proprie radici nel territorio, ha incominciato a produrre liquirizia dal 1731 a Rossano, considerata da sempre patria dell’ “oro nero” dello Ionio. L’azienda Amarelli è anche la più antica industria dolciaria italiana avendo attraversato ben quattordici generazioni e intrecciato la propria esistenza con la memoria del territorio e il suo tipico prodotto. Per ammirare e rendersi conto del tesoro dolciario calabrese, si può visitare il Museo della Liquirizia“Giorgio Amarelli” che, unico al mondo nel suo genere, ha vinto nel 2001 il prestigioso Premio Guggenheim costituendo oggi uno dei più importanti musei d’impresa italiani. Ogni anno registra, tra italiani e stranieri, circa 40.000 visitatori affascinati dalla cultura d’impresa che custodisce. Ideato da Giorgio Amarelli, è stato realizzato nel 2001 dalla moglie del fratello Franco, Pina Mengano e, nel 2004, ha ottenuto la dedica, da parte delle Poste Italiane, di un francobollo.
La sede del museo è attualmente in un palazzo imponente del 1400, antica dimora rurale della famiglia Amarelli, ubicata poco distante dal “concio” dove si lavora ancora oggi la liquirizia. Nell’atrio del museo è posta la targa della prestigiosa associazione internazionale “Les Hénokiens”, che unisce le aziende familiari bicentenarie di tutto il mondo e della quale l’Amarelli fa parte. Durante il tour si possono ammirare incisioni, documenti, libri e immagini d’epoca che raccontano pagine di storia della famiglia le cui origine risalgono all’anno Mille.
Scorre così, sotto gli occhi degli appassionati, un documentato excursus che va da Alessandro Amarelli, crociato morto in Palestina nel 1103 a Leonardo Amarelli, fondatore nel 1600 dell’Università di Messina, fino a Vincenzo Amarelli che diffuse le sue idee unitarie anche in veste di maestro di Luigi Settembrini. Conservato nel museo c’è anche uno spaccato del tempo attraverso abiti d’epoca e oggetti vari dell’antica società e della vita quotidiana che svelano l’appartenenza degli Amarelli alla élite del Regno di Napoli, quale famiglia nobile e grande proprietaria terriera.
Nel museo non manca, proprio al centro di esso, la storia della liquirizia con l’esposizione di balle di radice, attrezzi manuali, stampi di bronzo e macchinari sperimentali che raccontano la prima produzione e la lavorazione di una pianta all’epoca invisa a causa delle radici profonde, difficili da sradicare e infestanti a tal punto da non permettere altre coltivazioni. Il viaggio prosegue con l’esposizione di utensili e cimeli che ci parlano dell’evoluzione della lavorazione e della successiva commercializzazione. Si passa, tra il 1700 e il 1800, dai documenti contabili, come registri paga e giornali di produzione fino, addirittura, alla corrispondenza tra produttori e autorità di governo. Si può virtualmente assistere alla trasformazione di quella che era dapprima un’ azienda agricola e successivamente diventò una fabbrica che incominciò ad aprirsi ai mercati internazionali facendo arrivare le scatolette di liquirizia in ogni parte del mondo ed esportando oggi anche prodotti ricavati dalla radice di liquirizia. Custoditi nel museo, inoltre, vediamo i primi macchinari utilizzati per la produzione della liquirizia dopo il rivoluzionario avvento dell’energia elettrica.
Il successo seguito alla lavorazione di questa pianta ed alla sua esportazione risale già al 1928 quando persino l’Encyclopaedia Britannica riportava che la qualità di liquirizia, maggiormente apprezzata in Gran Bretagna, era quella prodotta in Calabria. Comunque, l’iter per ottenere il marchio di qualità è stato lungo e si è dovuto attendere il 2011 perché per la “Liquirizia di Calabria” arrivasse la denominazione d’origine protetta (DOP), marchio riservato esclusivamente ai prodotti agroalimentari che offrono garanzie di origine, localizzazione, tradizione e provenienza. Questo riconoscimento ha portato la nostra liquirizia al 230° posto dei prodotti italiani certificati DOP e, nel complesso, ha incrementato le produzioni “made in Calabria” a denominazione d’origine protetta. Il marchio DOP “Liquirizia di Calabria”, come si legge nel Regolamento dell’Unione Europea, è riservato solo ed esclusivamente alla liquirizia fresca o essiccata e al suo estratto, provenienti dalla coltivazione della spontanea Glychirrhiza glabra e, precisamente, nella varietà denominata in Calabria “Cordara”. Per la prima volta, quindi, la denominazione d’origine protetta è stata assegnata a due tipologie di prodotto: la radice e l’estratto di radice. L’area storica di produzione è stata individuata nella zona costiera ionica della Calabria, in particolare nella Piana di Sibari, compresa tra i comuni di Villapiana, Cerchiara di Calabria, Cassano – Sibari, Rossano e Corigliano Calabro.
La pianta della liquirizia, Glycyrrhiza glabra (Leguminose Papillonacee), era già nota nel XVII secolo e dalla metà del 1700 era coltivata sul litorale ionico della Calabria ai confini con la Lucania e dalla piana di Sibari fino a Crotone e a Reggio Calabria, anche se era molto presente nella bassa valle del Crati e nella zona costiera tirrenica. Risalendo nella storia, si ricavano varie notizie sulla pianta: infatti, nel 1771 il barone Johann Hermann von Riedesel registrò nel suo diario di viaggio che il “sugo di regolizia” rendeva profitti per 4.000 ducati all’anno; pochi anni dopo il viaggiatore britannico Henry Swinburne scrisse che il duca di Corigliano guadagnava 700 lire all’anno per la vendita di liquirizia; nel 1776 Jean-Claude Richard de Saint-Non descrisse minuziosamente la tecnica di estrazione del succo e disegnò anche l’interno di un opificio di Corigliano; durante il periodo napoleonico, l’ufficiale francese Duret de Tavel descrisse le fasi di lavorazione della liquirizia calabrese; nel 1826 è registrata una produzione di almeno 8.000 cantaia (circa 640 tonnellate), per un profitto totale di 120.000 ducati annui; nel 1875 sono registrati grandi stabilimenti (chiamati localmente conci) per ottenere il succo della liquirizia, che veniva esportata anche in Francia, Germania e Russia con grandissimi ricavi; nel 1903 compare già la denominazione “Liquirizia di Calabria” per distinguerla dalla “liquirizia di Russia”, più chiara e ricavata dalla Glycyrrhiza glandulifera o Glycyrrhiza echinata presente nell’Europa sud-orientale. La produzione di liquirizia in Calabria, che nel miglior periodo era stimata fra 10.000 e 20.000 tonnellate all’anno, entrò in crisi negli anni successivi alla seconda guerra mondiale con il punto più basso toccato negli anni 1990, a causa della concorrenza estera che portò alla chiusura di molti conci imponendo spesso, alle poche aziende rimaste, di rivolgersi ad imprese di trasformazione extraregionali. Negli anni 2000, grazie ai contributi del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale dell’Unione europea, la produzione è stata rilanciata e incentivata, portando l’estensione dei liquirizieti (coltivati o spontanei) a circa 1.000 ettari, con una produzione media regionale di 2500 tonnellate di radici all’anno.
La liquirizia di Calabria IGP è commercializzata nelle varietà di radice fresca,radice essiccata ed estratto di radice. Dopo l’estrazione dal terreno, le radici vengono tagliate, calibrate e lavate con acqua. Nel caso di essiccazione, le radici sono poste in luoghi ventilati e soleggiati sia all’aperto sia in locali arieggiati o in forni ventilati con temperatura inferiore a 50 °C. Per l’estrazione del succo, le radici di liquirizia vengono dapprima tagliate, schiacciate e sfibrate e successivamente vengono fatte bollire nell’acqua calda. Il succo, in tal modo estratto, viene fatto chiarificare e concentrare con ulteriore bollitura fino a ricavarne un impasto nero e denso che, infine,viene modellato nella forma voluta e confezionato.
Il nome del genere Glycyrrhiza deriva dal greco ‘glykýs’ (dolce) e ‘rhíza’ (radice) e significa letteralmente ‘radice dolce’, mentre il nome liquirizia deriva dal tardo latino liquiritia, a sua volta derivato dal greco γλυκύρριζα e dal verbo liquere, «diventare fluido» che sottolinea il metodo di estrazione del succo dalle radici. Il principio attivo più importante della liquirizia è la glicirrizina che le conferisce un’azione antinfiammatoria, antivirale e, secondo alcune ricerche, inibisce la replicazione del virus HIV e del coronavirus associato alla SARSin cellule umane, ma è anche notorio come abbia effetti collaterali sull’equilibrio dei sali minerali nel corpo tantoché un abuso di liquirizia può provocare ritenzione idrica e aumento della pressione fino all’ipertensione.