In età adulta quattro anni di differenza sono un’inezia; da piccoli, invece, sembrano un’eternità. Quanto basta, almeno, ad avere qualcosa in più da ricordare e da raccontare del proprio passato.
Ecco perché oggi apparecchiamo la tavola del fine settimana con le stoviglie color nostalgia, invitando a cena un caro amico, col quale abbiamo in comune lo spirito nostalgico e l’amore per quella che fu la nostra terra.
E che, in cuor nostro, vorremmo tornasse a essere.
di Giuseppe Racco
“’L’urlo di Chen terrorizza l’Occidente’ era uno dei tanti film di Bruce Lee che vedevo al cinema Nuovo o all’Apollo in compagnia di Gianni T., un lungagnone magro, un po’ più grande di me.
Tra gli anni ’70 e ’80 andavi al cinema di domenica e con mille lire vedevi due film, dalle 3 del pomeriggio fino a sera. Uscivi da lì dentro pieno di fumo e con qualche maglione, rigorosamente a rombi, bruciato dai mozziconi di sigarette che volavano ancora accesi per mano dei forisi a cui nessuno si azzardava a dir nulla per evitare una levata di mani.
A quei tempi la via Amendola, dove c’erano i due hotel, di cui uno di proprietà dei miei, era una via poco trafficata dalle macchine, con attorno tanta campagna, e qualcuno aveva già edificato le prime villette.
Quando uscivo fuori dall’hotel, in estate, in compagnia di qualche ragazza fiorentina – a quei tempi venivano in villeggiatura tante comitive di toscani – vedevo arrivare un ragazzetto piccolino dalla parte del semaforo che incrocia via Amendola con Corso Garibaldi, su una bicicletta, sparato, con gli occhioni verdi, bianco come la neve e felice come la Pasqua, in compagnia della sorella. Seppi che si chiamava Gianluca A. e sarebbe diventato mio amico più avanti.
Il profumo degli oleandri e dei peschi nel periodo primaverile creava l’atmosfera giusta per giocare a calcio in strada e prendere a pallonate i cancelli delle abitazioni, calpestando talvolta la cacca lasciata da qualche cane randagio che ci osservava durante le nostre partitelle pomeridiane.
Il rientro a casa, alla sera, sudato, prevedeva una superficiale lavata tra le urla di mia madre.
Durante gli anni del liceo, a Siderno, aprì uno dei primi locali ispirati alle realtà dell’Europa settentrionale, il famoso Pub 86, sul corso Garibaldi, una vera novità per quei tempi, con il suo stile in legno, gestito dal povero L. che scomparirà anni dopo a seguito di un incidente sulla Nazionale 106, investito da una macchina mentre era in sella alla sua sulla bicicletta.
Insieme a lui c’era l’amico Sasà, oggi insegnante, che con calma serafica chiedeva a noi ragazzi quale pizza volessimo, e alla fine chiudeva con… cincu minuti ed è pronta.
Naturalmente quei cinque minuti erano una dose di tranquillità che Sasà preferiva infondere ai suoi ospiti che avrebbero dovuto attendere un bel po’ prima di mangiare.
La piazzetta dove oggi c’è il busto di Michele Bello, sabato sera e domenica era il luogo di ritrovo dei ragazzi sidernesi, un pullulare di persone che si alzava e si sedeva dalle poche panchine in pietra. Dall’altra parte della strada guardavo la gente davanti al negozio di S. il più in di Siderno che osservava la bella vetrina allestita di abiti alla moda.
A noi, però, interessava ’u pilu e nient’altro…
Siderno aveva tre ritrovi importanti: la nostra piazzetta, dove c’erano molti figli di papà, la piazza Portosalvo, frequentata dal popolo, e la piazza davanti al Comune di fronte al bar Aquila e all’edicola di Docile, dove s’incontravano i politici sidernesi e che sostituiva gli incontri storici degli anni ’70 presso la libreria di Mimmo Gentile.
La stagione invernale trascorreva ma l’estate rimaneva il punto centrale nella mia testa. Sarebbero arrivati i turisti e da lì a poco anche l’atmosfera sarebbe cambiata…il lido dell’hotel era sutta ‘u bar du Mimì.
Ad agosto partiva la gara dei tuffi del Caciacio, si vedevano i fratelli B. tra cui spiccava il più famoso Ziringa e lo Squalo con la sua barba da bronzo di Riace, conquistatore di signore straniere annoiate. Arrivava col suo passo felpato, spalle leggermente all’indietro e ci erudiva sui metodi raffinati che avremmo dovuto usare per entrare nel cuore delle donne.
Poi, lungo la battigia, quattro calci a palla con qualche intervento del Caciacio che ci sollecitava l’ennesimo cross in mezzo con la famosa frase dammiglia arta e a rociri. E intanto la musica del juke box del bar di Mimi ci allietava con le canzoni della Rettore, mentre il sole batteva Splendido Splendente. Le partite organizzate a calcio con gli amici si svolgevano quasi tutte alle palazzine, le famose case popolari poste sul corso Garibaldi”.
Fin qui Giuseppe.
Completiamo la narrazione con un’appendice sul “Campo delle palazzine”.
Sorgeva in via Torrente Garino Coperto e vi si accedeva tranquillamente (e gratuitamente) dal marciapiede. Veniva detto “delle Palazzine” perché era di fronte alle case popolari e i suoi residenti erano i veri padroni di quel rettangolo di gioco in terra battuta senza linee tracciate ma con due vere porte coi pali in legno e la rete che si gonfiava a ogni goal.
Vigevano strane regole alle “palazzine”: il fallo laterale veniva dato solo quando il pallone sorvolava il marciapiede lato Sud e finiva in strada mentre dall’altro lato, il Nord, non veniva mai assegnato perché “si giocava con la sponda”.
Una regola inventata che favoriva le sgroppate sulla fascia dei giocatori più tecnici e abili a saltare l’uomo.
Tra questi ricordo con piacere Nicola Commisso, un furetto alla Littbarski, oggi apprezzato avvocato.
Ci provavo anch’io dopo aver visto in Tv il Boniek “bello di notte” ma con scarsi risultati in termini di contributo alla manovra della squadra. Mi andava meglio nei calci da fermo: una volta persino io segnai su calcio di punizione a rientrare “alla Zico” calciato d’interno sinistro che s’infilò sul “sette” della porta lato Est del glorioso “campo delle palazzine”: un’impresa per un destro naturale come me che qualche compagno di squadra chiamava “puntazza special” per l’inesistente tecnica.
A distanza di anni capii che venivo convocato solo perché avevo (e soprattutto portavo) un pallone di cuoio (o presunto tale) coi pentagoni neri e gli esagoni bianchi, che col tempo divenne un’unica sfera grigiastra.
Ma andava bene così.
Si giocava a qualsiasi ora, anche dopo il pranzo della domenica, con improbabili tute in felpa – l’acetato era ancora troppo all’avanguardia per quei tempi – molto simili a dei pigiami dai colori tenuti e “il brasato ancora sullo stomaco” come narrava Paolo Rossi.
L’attore, non il calciatore.
Qualche buontempone aveva scritto, sul muro lato Nord, a caratteri cubitali:
GINO-SERRA=CUSTODE DEL CAMPO.
Nella sintassi delle palazzine voleva dire che il Caciacio era stato investito del ruolo di custode, sebbene qualche nostro coetaneo che studiava al liceo classico definì quella scritta sgrammaticata “l’equazione fondamentale”.
Il divertimento finiva quando arrivano i più grandi e si prendevano il campo, come cantava Enrico Ruggeri.
Un giorno arrivarono i più grandi dei grandi e il campo delle palazzine divenne la base delle fondamenta di un palazzone.
Game over.
Gianluca Albanese
(3. Continua…)