di Gianluca Albanese
Sei metri di lunghezza e uno di larghezza. E cinque o sei vasi di fiori, uno per ogni metro, accanto alla ringhiera nera.
Il balcone con affaccio sul cortile del palazzo di via Amendola era la mia finestra sul mondo.
Specie in quei pomeriggi d’estate in cui le ore sono lunghe da riempire e lo spirito di osservazione si aguzza molto spontaneamente.
Il balcone dava a ovest, verso i monti, e il primo posto davanti agli occhi era un grande appezzamento di terreno agricolo, dissodato e coltivato con costanza e competenza da Micuzzo, un anziano contadino che sembrava uscito da un quadro di un pittore belga. Coppola in testa e camicia a quadri con le maniche rimboccate, Micuzzo zappava con regolarità ogni centimetro quadro di quel pezzo di campagna ricavato nel centro cittadino, col sole che gli anneriva e gli seccava la pelle, facendo risaltare i lunghi peli grigio chiaro delle braccia.
Un giorno arrivarono i mezzi del movimento terra.
Qualcuno decise che quel terreno sarebbe diventato edificabile, togliendo a chi sarebbe arrivato dopo di me la vista degli alberghi e dei monti.
Un ricordo grigio che, chissà perché, associo all’anno dello scudetto del Verona di Bagnoli.
A destra del balcone, ovvero a Nord, le case popolari, con le corone di pomodori, cipolle e peperoncini appese ai balconi. La varia umanità che ci abitava si manifestava in un meltin pot di voci, rumori e odori dei piatti cucinati, e il Caciacio spuntava spesso in strada a portare la sua allegria sudamericana, col sombrero in testa, piatti metallici da sbattere tra le mani e fischietti dal suono stridulo in bocca.
Ricordo ancora il giorno in cui smise di indossare la maglietta nerazzurra e di farsi chiamare “Mazzola” per diventare, di colpo, tifoso juventino. Folgorato sulla via di Damasco o, più probabilmente, sedotto da un nuovo fornitore di calzature.
All’epoca riuscivo a sporgermi – con prudenza, certo – con la testa oltre la ringhiera, per guardare il cortile che oggi mi sembra minuscolo, ma per almeno un lustro fu il nostro campo di calcetto, con relativo bilancio di lampioni rotti e carrozzerie della auto parcheggiate ammaccate.
Non ricordo come, ma un giorno Vincenzo N. riuscì a riparare il cofano di un Maggiolino, semplicemente premendo un altro punto, poco distante dall’ammaccatura, mentre Salvatore J. osservata con aria apparentemente disinteressata seduto con un panino in mano, farcito col salame di una terra lontana.
Ogni tanto apriva un piccolo locale sul cortile, adibito a sede dell’Ente per la Protezione Animali, mentre una finestra con le grate ci permetteva di sbirciare sul bancone del bar di Mimmo, uno dei pochi luoghi rimasto pressoché inalterato.
Tutt’altro destino per il piccolo magazzino di tessuti accanto al bar. All’epoca lo gestiva il marito della maestra di mia sorella. Quando abbassò la saracinesca per l’ultima volta, non la vidi mai più su.
Già, il bar di Mimmo…
Era la sosta obbligata di tutti, dei tanti turisti che alloggiavano negli alberghi della parte alta di via Amendola: le nostre torri gemelle. Stesso numero di stelle e stessa clientela, la nostra fantasia di bambini che leggevamo le avventure di Paperone e Rockerduck ce li faceva immaginare in eterna concorrenza, mentre sono certo che la convivenza tra l’hotel dei Gelsomini e l’Efgal fosse assolutamente corretta e pacifica.
Al bar di Mimmo non passavano solo i turisti.
C’erano anche i ragazzi delle case popolari e quelli delle Sbarre, che aspettavano ‘a passa d’i marvizzi negli orari in cui si scende in costume nei (pochi) lidi presenti nella zona Sud del lungomare.
Era interclassista quel bar con le due sedie di plastica colorata e intrecciata davanti all’ingresso, sul marciapiede accanto al juke-box che passava i brani dell’epoca.
Dal mio balcone ascoltavo Umberto Tozzi, Donatella Rettore, Alan Sorrenti, Renato Zero, ma anche la gettonatissima “Ti voglio bene” dei cantanti locali Benito Prochilo e Rosanna Gerasolo.
Ma se c’è un brano che associo più naturalmente a quegli anni è questo.
Mi piace ancora, dopo tanti decenni.
La sera, poi, la colonna sonora diventava diversa, mentre il bar di Mimmo rimaneva crocevia di incontri, chiacchiere e battute, inframezzate dalla risata contagiosa e acuta del suo titolare.
Dopo cena, infatti, i turisti che non volevano uscire sul lungomare, dopo la sosta al bar tornavano nell’albergo che aveva la rotonda e i tavolini fuori, davanti al campo da tennis.
Prima il liscio per i meno giovani, e poi i brani del momento per chi cercava l’atmosfera giusta per conquiste, flirt e notti di passione.
Dopo il primo “brano del momento” andavo a letto, perché era giusto così. E di ciò che accadeva oltre il muro di recinzione dell’albergo, di cui riuscivo a distinguere nettamente musica e parole diffuse dagli altoparlanti, rimanevano vaghe e infantili fantasie che precedevano il sonno.
Oggi, su quello stesso marciapiede in cui in quegli anni passavano tante turiste di tutta Europa in abiti succinti, giacciono mastelli e sacchi di spazzatura enormi per via dell’emergenza rifiuti. E al posto dell’albergo (quello con la rotonda per ballare la sera e il campo da tennis), c’è il Commissariato di Polizia.
Segno dei tempi.
Per fortuna c’è ancora il Caciacio, rimasto il ragazzo di sempre nello spirito. E il juke-box del bar di Mimmo non ha lasciato il posto a una maledetta slot-machine.
Sembra poco, ma di questi tempi è già qualcosa.
1/ Continua…