di Patrizia Massara Di Nallo (Quasimodo sul Lungomare di Reggio Calabria- Fonte Web)
Nel secolo scorso la nostra città, Reggio, è stata crocevia di poeti e, per loro, fonte di ispirazione e fucina culturale. Nel suo anelante e pulsante cuore magno-greco, infatti,non erano rari i cenacoli o i semplici rendez-vous di scrittori in cui si cercava di far sopravvivere la cultura classica sia fosse fatta di musica sia di letteratura con, al contempo, sguardi impazienti al futuro e ad innovativi modi di espressione artistica. Un humus all’apparenza statico che spesso ha generato, nella sacra accoglienza dell’ospite e nel discreto scambio intellettuale, un prolifico fermento culturale da cui sono scaturite opere imperiture.
Nel 1926 Quasimodo, «Nobel» per la letteratura nel 1959,venne assunto dal Ministero dei lavori pubblici e assegnato, come geometra, al Genio civile di Reggio Calabria. Qui strinse amicizia con i fratelli Enzo e Bruno Misefari, entrambi esponenti (il primo comunista, il secondo anarchico) del movimento antifascista di Reggio Calabria. Soggiornò a Reggio dal 1926 al 1930 e nello stesso periodo nacque la raccolta Acque e terre e la nota lirica Vento a Tindari, dedicata alla storica località presso Patti (ME).
A testimonianza di questo periodo riportiamo di seguito uno scritto di Enzo Misefari tratto da “Reggio Calabria, bella e gentile”a cura di Enzo Laganà ed Enza Barbaro, Sinefine edizioni, volume secondo.“Il soggiorno in Calabria del poeta fu assai importante (…) diventammo così strettissimi amici e ci muovemmo insieme. Mi volle accanto quando si trattò di rintracciare «Totò», il suo compagno di scuola «ora giurista e docente presso l’Ateneo messinese». La riscoperta per lui ebbe un valore immenso. Mi presentò a lui come possessore di una delle quattro virtù cardinali, la saggezza, di cui parla Platone,aggiungendo di vedere in me un «buon intenditore di poesia». Naturalmente nelle visite successive alla formazione di un «cenacolo», gli raccontò pure la vita che facevamo insieme nella Città della Fata Morgana, detta così per il noto fenomeno di rifrazione della luce dello Stretto sulle cui acque ancora aleggia la tenera leggenda di Colapesce e della principessa crudele. Le nostre gite a Messina s’infittirono con l’andare del tempo; ogni domenica,anche d’inverno o quando il mare era in tempesta. Il resto della settimana lo dedicavamo, dopo il lavoro, alle passeggiate in via Marina bassa quasi violentemente attratti dal meraviglioso paesaggio fra il mare e i monti Peloritani, e dalla Città dirimpettaia fino all’Etna.Le nostre conversazioni non erano frivole. Ammazzavamo i poeti, i romanzieri, i critici, la poesia e le arti dell’Ottocento e quelle del primo quarto del Novecento, conversando ed esaltando classici e qualche romantico a seconda delle letture di libri o di articoli apparsi su giornali e riviste. Certi sfoghi ci facevano poi ridere e ci divertivamo spesso così (…). Si dava a lunghe sghignazzate e sembra che ciò lo rendesse soddisfatto e sicuro. Il suo carattere pareva lontano da paure e da preoccupazioni. E ciò era in pieno contrasto con la poesia, nelle pieghe della quale si scorge quella gelida amarezza dell’«esilio» a cui era stato realmente condannato dal duro cipiglio del padre che, dopo avergli data un’istruzione media, intendeva vederlo subito al lavoro pratico, e non a bighellonare ed a cercare, con l’aria del poeta, la luna nel pozzo dell’orto (…) Nelle nostre conversazioni non entrò mai il padre suo; ed io trassi da tale assenza il convincimento di un’analogia col « privato» di Leopardi, che di tutto e di tutti parlò nelle sue opere meno che della propria genitrice. Vero è che Quasimodo, quando l’alloro lo coronò, rovesciò sul distacco che lo separava dal padre la più tenera invocazione che al figlio baciato dalla gloria è concessa; ma questo non nega l’«esilio» né i lunghi patimenti che, durante esso, i veri amici suoi osservavano specie nei momenti di stizza e di forte depressione. Inoltre, il grido represso del cuore scoppia quando il padre tocca i novant’anni e suscita, per gli inevitabili accostamenti alla lugubrità della fine, commozione e sentimenti. Nei discorsi sul proprio «privato» non dava respiro. Così egli mi parlò di Elio Vittorini, uno dei migliori prosatori del tempo, «mio cognato che collabora a Solaria di Pugliatti», il futuro rettore dell’Università, quando mi condusse con sé da Reggio a Messina per rintracciarlo (…). Quando morì mio padre, sloggiammo dal rione Ferrovieri di Reggio e passammo dalle parti dei giardini comunali. Il rione Ferrovieri, attraverso un corto tunnel sempre invaso da allegri rigagnoli, si spalancava all’improvviso su una spiaggia sterminata, deserta e sabbiosa come quelle della Papuasia, che aveva conservato il suo nome classico, Calopinace, cioè bel panorama. Infatti, oltre il mare viola dello Stretto, si stendeva frontalmente la costa siciliana, quella di Ulisse e di Polifemo, con l’Etna visibile sul fondo. Sempre in riferimento agli anni che Quasimodo trascorse a Reggio, di seguito riportiamo uno scritto di Leopoldo Trieste tratto anch’esso da “Reggio Calabria, bella e gentile”a cura di Enzo Laganà ed Enza Barbaro, Sinefine edizioni, volume secondo.“Quando ero sui quindici anni, la mia casa fu frequentata per un periodo da Salvatore Quasimodo che allora era impiegato al Genio civile di Reggio e dipendeva dall’ingegnere Mineo che divideva con noi la palazzina. L’ingegnere,che aveva una moglie di venti anni, Silvia, bellissima, padovana, ed era persona di buon gusto e di buone letture, riceveva qualche volta il poeta trentenne. E una sera Quasimodo passò da noi per sentir suonare al pianoforte mia sorella Vera, che era un’adolescente gran capelli e grandi occhi e studiava musica con un meraviglioso pianista cieco.
Con Quasimodo c’era anche un suo amico messinese, il professore Pugliatti, famoso critico d’arte, e mia sorella si emozionò suonando Grieg. Poi Quasimodo prese l’abitudine di farci visita per delle seratine musicali, e a volte recitava le poesie di Acque e terre che aveva pubblicato due anni prima, nel 1930. Diceva i versi con molta concentrazione, io facevo la quinta ginnasio e riversai su quelle poesie tutta la piena d’amore di cui ero capace. Ne imparai molte a memoria: «Perduta ogni dolcezza in te di vita, il sogno esalto (… ) Infinito ti sia, che superi ogni ora che parve eterna nel tempo, riso di giovinezza, dolore…»; «T’ho amato e battuto: si china il giorno e colgo ombre dai cieli:che tristezza il mio cuore di carne!». Il poeta aveva simpatia per me, e lesse perfino qualcuno dei miei temi scolastici. Una volta, avendo ascoltato mia sorella suonare Scarlatti, descrisse i giardini settecenteschi e le cascatelle che quella musica gli faceva vedere, però cercò anche di spiegarmi che le emozioni della musica sono più ampie dell’evocazione di un paesaggio. A quel tempo in Calabria gli scolari, non essendoci ancora il calcio, facevano il tifo per i poeti, e quasi tutti dicevano: «Gabriele D’Annunzio» mentre io dicevo «Salvatore Quasimodo» e tutti mi prendevano in giro. Ma io rispondevo:«Aspettate e vedrete». Smanioso di consensi portai il libro di Acque e terre al professore di lettere, che sentenziò: «È un povero disgraziato», perché l’ermetismo di Quasimodo urtava tutta la sua educazione. Il preside,invece, a cui mancava un dito, disse:«Sì, c’è qualcosa, ma non ha un vero mondo poetico». Poi Quasimodo lasciò la mia Città, e io aspettavo avidamente che, da qualche parte del mondo, mi arrivasse un segnale della sua esistenza e della sua ascesa. E infatti, a distanza di anni, arrivò in provincia una copertina di «Grandi firme» in cui lui appariva fotografato a fianco di Pitigrilli e Amalia Guglieminetti. Ne misi al corrente trionfalmente tutti gli amici, ormai il traguardo era vicino. Non ricordo a che punto fossi della mia vita quando arrivò la notizia del Premio Nobel. Leggo dall’enciclopedia che fu nel ’59, troppo tardi perché la cosa contasse molto per me. Quando fui rappresentato con Cronaca a Milano, Quasimodo teneva una rubrica di critica teatrale su un settimanale. Avevo progettato , dopo che fosse uscito il suo pezzo, non prima per non influenzarlo ,di presentarmi a lui, e dirgli che ero Leopoldo, anzi Libero Trieste, il ragazzo del ginnasio fratello di Vera la ragazza pianista di Reggio Calabria, e l’idea mi piaceva perché gli avrei ricordato che una volta, leggendo un mio tema, mi aveva detto: «Tu hai disposizione per le belle lettere». Ma stranamente Quasimodo quella sera non era a teatro, c’era, credo,il suo vice”.Ci piace ricordare che anche Giovanni Pascoli rimase affascinato da Reggio nel periodo in cui, essendo divenuto professore universitario nel 1895, fu costretto dalla sua professione a lavorare in più città, tra le quali Messina.
Il poeta romagnolo, figura emblematica della letteratura italiana di fine Ottocento, nel ricordare il talentuosissimo latinista reggino Diego Vitrioli, nella parte introduttiva di “Un poeta di lingua morta”, 7° capitolo della raccolta “Pensieri e discorsi” (1914), descrive il mare di Reggio con oniriche parole che oggi sono scolpite su un monumento posto sul Lungomare Falcomatà: «Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni. Ululano ancora le Nereidi obliate in questo mare, e in questo cielo spesso ondeggiano pensili le città morte. Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine; e qui si fondono formando nella serenità del mattino un immenso bagno di purissimi metalli scintillanti nel liquefarsi, e qui si adagiano rendendo, tra i vapori della sera, immagine di grandi porpore cangianti di tutte le sfumature delle conchiglie. È un luogo sacro questo. Tra Scilla e Messina, in fondo al mare, sotto il cobalto azzurrissimo, sotto i metalli scintillanti dell’aurora, sotto le porpore iridescenti dell’occaso, è appiattata, dicono, la morte; non quella, per dir così, che coglie dalle piante umane ora il fiore ora il frutto, lasciando i rami liberi di fiorire ancora e di fruttare; ma quella che secca le piante stesse; non quella che pota, ma quella che sradica; non quella che lascia dietro sé lacrime, ma quella cui segue l’oblio. Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia».