Traduzione e introduzione di Antonella Colletta. Illustrazioni di Marta Solazzo.
di Patrizia Massara di Nallo
In questo pregevolissimo libro la scrittrice Antonella Colletta ha raccolto e tradotto dal francese alcune delle più significative poesie di tre ragazzi, africani ed antillani, liceali nella Parigi già multietnica del 1932. Prima dell’indipendenza dei loro Paesi questi giovani intellettuali si riunivano insieme con i poeti nero-americani in un clima intriso di sommessa ribellione al colonialismo e di ricerca della propria identità culturale. In quel periodo storico, a cavallo fra le due grandi guerre, urgeva salvifica e improrogabile la necessità di contrapporsi alla permeabilità omologante della società europea secondo la quale cartesianamente si esisteva solo se si era Europei e che bastando a sé stessa in una presuntuosa autorefenzialità cercava di tenere a distanza oppure di fagocitare le altre culture.
Da questa tendenza derivò per questi poeti un profondo disagio esistenziale, un ondeggiare fra l’essere intimo e le invadenti sovrastrutture culturali che simulavano una pseudo-integrazione soffocando i loro aneliti più profondi. Da qui il rifiuto all’uniformazione alla cultura europea che li aveva cullati e in cui erano immersi e il sorgere di un nuovo movimento soprattutto letterario ora accolto e nutrito ma spesso osteggiato e trascurato anche da sé stessi in cui con un complesso travaglio psicologico si agitava un’indignazione latente che, imbrigliata dall’ipocrisia, stentava a venir fuori. Era il sotterraneo fermento culturale che precedette l’affrancamento di molti Paesi africani dal colonialismo e che, sottolineando il carattere di originalità della cultura nera, ne rivendicava la dignità rispetto alla cultura occidentale. Alcuni dei suoi esponenti tornarono alfine nella terra d’origine a riannodare i fili spezzati dell’anima.
I loro nomi erano Lèopold Sèdar Senghor, Aimè Cèsaire e Lèon Gontran Damas. Lèopold Sèdar Senghor, intellettuale senegalese, nel 1948 ritornerà in patria, la traghetterà verso l’indipendenza, ne formerà la democrazia e ne scriverà l’inno nazionale diventandone presidente per 5 volte. Ora attraverso l’inno a una donna nera, dal dondolìo ritmato dell’incedere, ora attraverso gazzelle e savane connotative dei paesaggi africani e dell’humus del suo mondo interiore, vuole nutrire il popolo e svegliarlo al futuro “ la mia negritudine non è affatto sonno della razza ma sole dell’anima”.
La sua poetica è impregnata di immagini realistico-oniriche e sottende un originale percorso stilistico nel quale si mescola insistente un “ jazz orfano che singhiozza, singhiozza, singhiozza”. Nel 1935 sarà proprio l’antillano Aimè Cèsair, più tardi sindaco della capitale della sua Martinica, a coniare su l’Etudiant noir il neologismo negritudine per indicare l’insieme dei valori della tradizione culturale nera. Nel suo “Cahier d’un retour au pays natal” del 1939 arriva a considerarsi un vigliacco nel nascondere la sua negritudine “il mio sangue minimizzato” e lottando contro la voglia di ritornare nella sua terra alimenta la sofferenza per l’avvertito tradimento di sé stesso “E la mia anima dorme”, ma altrove con ritrovata consapevolezza prorompe aspramente “ la mia bocca sarà la bocca delle disgrazie che non hanno bocca”. Lèon Gontran Damas, originario della Guiana francese, secondo l’educazione filooccidentale impartitagli dai suoi genitori (il nonno era bianco) è obbligato a suonare il violino anziché l’amato banjio come invece vorrebbe. Dalla speranza naufragata sulle note di un pentagramma scaturisce, in un idioma discreto e pungente al contempo, la riottosità sia alle codificate buone maniere sia al parlare la lingua francese.
Nel suo tessuto poetico, anche nei versi ricchi di pathos di atmosfere evanescenti, ritroviamo un ritmo incalzante che soverchia la parola, una musicalità che diviene mezzo integrante del messaggio e il verso reiterato all’infinito che come un mantra alfine si spezza in gola. Il poeta David Diop, che divenne alunno di Aimè Cèsaire, si compenetra invece nell’odissea della conquista e del colonialismo. Mentre “la luna, materna, accompagnava le nostre danze” e il “ tam –tam della gioia tam-tam della spensieratezza in mezzo ai fuochi di libertà” ecco che, all’improvviso, “ bambini lasciarono la loro nudità tranquilla per l’uniforme di ferro e di sangue” in cui la crudezza immaginifica frena, fra apparente pudore e altalenante rassegnazione, le lacrime sommesse. La sua Africa “calcherai la terra amara e rossa d’Africa” è quella umile che piega la schiena sotto le frustate e alfine “ricresce pazientemente ostinatamente” verso la libertà. Arranca la memoria africana e il tentativo di farla rivivere a Parigi mentre, durante anni di umiliazioni e personali mea culpa, viene circondato da complimenti ipocriti e ironici “Sulla tua fronte serena di civilizzato”.
Anche la poetica del senegalese Birago Diop, non discostandosi dalle tematiche care al movimento, le filtra fra sussurrati lamenti e sfrenati inni descrivendo una natura africana in cui tutto, in ricercate allitterazioni e giocosi equilibrismi di versi, interloquisce con lui.. La scrittrice Colletta inserisce in questa antologia anche l’artista Rabearivelo, malgascio, che, pur non essendo mai vissuto a Parigi, ebbe, almeno nel tentativo di unire culture così diverse fra loro, lo stesso scopo letterario degli altri artisti. Da ritmo, musica e danza nascono versi talvolta concatenati in immagini ermetiche “Il crepuscolo schiuso sulle colline col giorno e annuncia il gallo” che negli spazi eterei di alba e tramonto giocano a nascondino con la realtà e la studiano di soppiatto dal rifugio del proprio animo.
I poeti dei Poemi della negritudine, pur con cifre stilistiche diverse, ci accompagnano quindi in un universale viaggio geografico, storico e interiore dell’anima umana facendoci giungere ad un medesimo lido della terra africana dai malinconici chiaroscuri in un incessante ascolto dell’universo intorno, talvolta combattuto (come in Lèon Gontran Damas) fra cattolicesimo e animismo. Nelle molteplici espressioni poetiche dei Poemi della negritudine c’è l’Africa intera e i ricordi di essa, la natura e i suoni di essa, i paesaggi e i protagonisti che si perdono in essi, un intero mondo carico di valori autentici. Prorompe affascinante la forza di un continente, quello africano, e della sua identità culturale che non poteva essere imbrigliata così come la sua natura, madre e matrigna al contempo, che, ammirata e rispettata, fa sgorgare una versificazione dura e spontanea. Si rincorrono i temi della presenza-assenza (Birago Diop), dell’onirismo e della memoria (David Diop ne Coups de Pilon del 1956) in sentimenti ora manifesti ora celati attraverso sguardi imbibiti di una bellezza triste in cui la tensione esistenziale si immerge in un mondo di rimorsi creando giochi di luci e ombre incastonati in espressioni taglienti. E’soprattutto una poesia di denuncia civile e personale in un intimo e incalzante interrogatorio che si curva melodico su sè stesso e sulle proprie fragilità. Grida e sofferenze in un dettato poetico grondante di guerre, stragi e ingiustizie e palpitante di fuochi di inquietudine nei frequenti momenti di personale smarrimento, tutto, è avvolto da una dimensione ancestrale di una memoria collettiva forte e di una individuale perpetuamente implacabile. Dobbiamo a queste Voci del mondo nero francofono dei primi del Novecento e alla loro travagliata presa di coscienza, il lento svelamento al resto del mondo della cultura africana ricca di peculiari tradizioni e perfettamente conscia del suo modo di vivere.
Nel libro si respira inoltre un’epifania poetica sorprendente per il verseggiare talora sincopato talaltra fluido e straripante mentre le note del jazz, sottofondo dei locali parigini di quegli anni, sembrano muovere le pagine ora mescolandosi timidamente ora fondendosi sfacciatamente con un lontano tam-tam che urla la sua esistenza. Nell’orchestrazione poetica trasparente e fresca anche il lessico francese sembra esser tratto da una sorgente nuova e incontaminata in cui gli enjambements, dalla delicata liricità, costringono il lettore a pause riflessive sull’inquietante percorso e sul possibile approdo. Un verseggiare non metrico, ma ritmico e accentuativo che nutrendosi appieno della sua epoca si inserisce a pieno titolo nella poetica moderna.