di Patrizia Massara Di Nallo (foto fonte web)
LONDRA – E’ stato scoperto che il Dna è più resiliente ai cambiamenti strutturali di quanto si pensasse finora, perché tollera persino la perdita (scient.delezione) di sequenze anche lunghe, purché vengano lasciati intatti i geni essenziali per la sopravvivenza della cellula. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science dal Wellcome Sanger Institute insieme all’Imperial College di Londra e all’Università di Harvard.
Nell’ambito della più complessa operazione di ingegneria genetica mai realizzata sulle linee di cellule umane coltivate in laboratorio, è stato dimostrato grazie al più grande ‘remix’ di genomi umani ottenuto finora,. Il risultato è importantissimo perché aiuterà a capire il ruolo di queste alterazioni nell’insorgenza di tumori e malattie dello sviluppo.
I ricercatori hanno remixato i genomi delle cellule umane in un unico grande esperimento utilizzando il prime editing, una recente tecnica di ingegneria genetica (basata sugli strumenti molecolari della Crispr) che permette di intervenire con precisione sul Dna, attuando una sorta di comando ‘trova e sostituisci’ nel libro della vita.
Applicando, infatti, il prime editing a varie linee cellulari utilizzate in laboratorio, hanno introdotto in ciascuna cellula oltre un centinaio di alterazioni casuali della struttura del genoma, ovvero delezioni, duplicazioni e inversioni di sequenze genetiche anche lunghe, ottenendo così migliaia di varianti strutturali dei genomi. In seguito hanno usato i le tecniche di sequenziamento e sono riusciti a esaminare gli effetti di queste alterazioni, valutandone l’impatto sulla sopravvivenza delle cellule. In questo modo hanno scoperto che risultano letali solo quei cambiamenti strutturali che comportano la perdita di geni essenziali, mentre le delezioni su larga scala, specialmente quelle che colpiscono le sequenze di Dna non codificante, non influiscono in maniera significativa sull’espressione dei geni della cellula. Ed oltretutto, a conclusioni simili è giunto anche un secondo studio pubblicato, sempre su Science, dai ricercatori dell’Università di Washington, che hanno applicato un altro approccio di editing su linee di cellule umane e su staminali embrionali di topo.