“E’ stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”. Se Fabrizio De Andrè fosse stato ancora vivo avrebbe ripensato a questo verso della sua canzone di quarant’anni fa. E, seduto in un vicoletto dei quartieri “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” della sua Genova o nella natura selvaggia della Gallura si sarebbe anche dato una buona spiegazione: lui e l’altra che si lasciarono lo fecero dopo aver seguito l’istinto, vera e unica stella polare che distingue una mera esistenza biologica dalla vita.
Il senso del primo romanzo della giovane scrittrice Margherita Catanzariti s’intitola “Segui sempre il gatto bianco” (Città del Sole edizioni) col felino che sta a simboleggiare l’istinto, le traiettorie inattese, i movimenti irrazionali, spontanei. Insomma, per dirla con Susanna Tamaro, che va dove lo porta il cuore o, anche, il destino. Proprio come rovi e foglie appallottolati in una giornata estiva spazzata dal vento forte di Ponente. In America li chiamano tumbleweed. Trait d’union tra il Ponente della Locride, sede del romanzo, e l’America del suo protagonista. Fino a un certo punto il libro sembra un romanzo rosa come tanti, con una trama già scritta anche in molti film. In fondo, basta poco a rimescolare i generi e ottenere, con la simmetria di un’immagine riflessa allo specchio, la storia d’amore del protagonista di “My name is Tanino” di Paolo Virzì. Stavolta, infatti, è lei la studentessa di provincia che s’innamora dell’americano bello e dannato. Affascinante e travolgente nella sua passione come solo gli “irregolari” sanno essere. E come se non bastasse fa pure l’artista infatuato di questa terra che è coprotagonista della storia, offrendo spiagge assolate sullo Jonio e il borgo antico di Gerace prima galeotto in un tavolo del pub, poi talamo sotto le stelle per notti di passione. Il quid in più di “Segui sempre il gatto bianco” è la grande capacità introspettiva della protagonista che si racconta e racconta in prima persona, fino ad arrivare all’incontro col gatto bianco che dà il senso a tutta l’opera e appare come il diario di un amore che nel momento in cui finisce tra i rulli delle rotative viene condiviso con chi legge e si appassiona al romanzo; e forse sa che il verbo “condividere” non è solo una funzione dei moderni social network. E allora più va avanti, più la storia “prende” il lettore, e non solo per la prosa godibile che fa “vivere” i posti e le situazioni in maniera efficace. La lettura “prende” perché riesce nell’intento di aprire una riflessione interna a chi legge, a fargli chiedere quante volte in vita sua abbia seguito il gatto bianco e a riportare a galla ricordi sopiti dal tempo e dalla quotidianità. E allora buona lettura. Se la storia narrata fosse un film, le opzioni per la sigla finale si sprecherebbero. Dai “Chicchi di grano” di Luca Carboni che “una mano ci ha presi e ci ha buttati lontano” all’armonica a bocca dell’attacco di “Farewell” di Francesco Guccini: “Farewell, non pensarci e perdonami, se ti ho portato via un poco d’estate, con qualcosa di fragile come le storie passate: forse un tempo poteva commuoverti, ma ora è inutile, credo perché, ogni volta che piangi e che ridi non piangi e non ridi con me”. E allora il gatto bianco diventa un libro che si posa sul bracciolo della poltrona, coi ricordi che si accarezzano come il suo pelo bianco.
GIANLUCA ALBANESE