di Rosario Rocca*
Nel silenzio di un mezzogiorno ormai avanzato, in un piccolo paese, l’arrivo di un camioncino ambulante non passa inosservato. Il suo procedere lento, accompagnato da un nastro consumato dal tempo, permette di sbirciare dalle poche finestre aperte finanche la qualità delle sue scorte alimentari. L’ho osservato per un po’ avanzare indeciso, per poi voltare appena e appostarsi nella piazza delle scuole. Solitario, con la sua musica distorta da un altoparlante retrò. In quella piazza di paese, solitaria anch’essa, con i suoi alberi sonnolenti e un po’ gibbosi. A un tratto sono sceso, anche se non avevo un’idea precisa di cosa comprare. Forse per guardare più da vicino quell’insolita immagine di solitudine.
“Una volta qua si faceva il mercato, vero?”, mi fa il venditore errante, guardandosi un po’ attorno con una punta di malinconia. Ho pensato che forse molti anni prima, quand’era più giovane e agile, era stato anche lui dietro uno dei banconi alimentari del mercato del giovedì. Era un tempo diverso, prima che i paesi interni si travestissero da fantasmi. E mi è tornato in mente Maurizio, un mio compagno minuto e scuro delle medie. Ricordo che dalla mia classe – allora c’erano addirittura due sezioni – si vedeva buona parte della superficie della piazza. Un giovedì di mercato, nell’ora di matematica il mio compagno, seduto proprio accanto alla finestra, osservava con aria spensierata l’andirivieni di casalinghe e pensionati tra vetrine di salumi e stender metallici colmi di grucce e capi d’abbigliamento. Finché il prof decise di interrompere quel suo momento di distensione che, per goderselo fino in fondo, si scavava in lungo e largo le narici con l’indice gracile e nero. “Mauriziu, ‘a faggiolina a quantu vai stamatina“, lo riprese il prof tra le risa mal contenute di noi altri. Allora, non potevo immaginare della piazza solitaria di un giovedì di tanti anni dopo, né di un uomo ch’era stato ragazzino, o di un ambulante grassoccio che, forse, quel giovedì di mercato aveva dosato sul piatto della sua bilancia analitica fagiolini e primizie di primavera. Né delle mascherine chirurgiche che i due, pur non essendo medici, avrebbero portato.
Dopo avermi consigliato una qualità pregiata di pesche e delle melanzane adatte per la cottura sulla griglia, mi ha chiesto cosa pensassi del virus e quanto tempo sarebbe passato per tornare alla normalità. Mi sono limitato a qualche svogliata frase di circostanza: “Cambieranno le nostre abitudini … staremo più attenti … passerà del tempo, prima che un vaccino…”.
“Non parlati i vaccini cu ‘mia – mi ha interrotto – vogliono solo fregare la povera gente. E non mi dite che non è così”.
Era un No vax. Ambulante. E un po’ buffo.
Non ho replicato nulla. Tanto ci avrebbe pensato qualche Burioni di turno la sera, in qualche trasmissione di approfondimento. E poi, ho sempre pensato che, poco prima del pranzo, i discorsi impegnati riescono male.
L’ho congedato indirizzandolo all’altra piazza, quella della chiesa, poco distante. Risalito a bordo, ha avviato il suo camioncino e riacceso la sua vecchia autoradio. A dire il vero, dall’espressione, con poche speranze di maggiore fortuna. Ma un altro luogo solitario lo aspettava, a pochi passi. Magari per vendere un altro chilo di melanzane e qualche confezione sottovuoto di lupini. E, vista la contingenza, per condurre un’altra piccola battaglia contro l’ipotetico vaccino obbligatorio anti Covid – 19.
Non mi è rimasto che riprendere la via di casa, con bietole, mele e lupini separati nelle buste della spesa. E mi è venuto da sorridere. Di un No vax ambulante capitato al paese in tempo di pandemia, e di un ricciolino smilzo adesso emigrato chissà dove che, tanti anni prima, lo aveva osservato a lungo con le dita nel naso imbustare verdure dietro un bancone.
*scrittore