di Patrizia Massara Di Nallo (Foto fonte Wikipedia)
Il problema del lavoro, il suo sviluppo in Calabria e la condizione femminile, di due secoli or sono, sicuramente costituiscono tre vulnus sociali che farebbero accapponare la pelle ad essere trattati contemporaneamente anche se interconnessi fra loro come del resto in tutta l’Italia.
Il lavoro dell’Ottocento e del Novecento, nei settori industriale, agricolo ed artigianale, era infatti connotato da grande fatica e poche soddisfazioni, dato che gli operai lavoravano dalle 12 alle 14 ore in ambienti malsani. La situazione era peggiore per le donne che oltretutto, per la maggior parte di esse, venivano impiegate in lavori usuranti per il fisico e per la mente. Il lavoro era infatti ripetitivo, pesante per il fisico femminile e, a tratti, pericoloso e causa di incidenti invalidanti. Inoltre tutto si svolgeva, in alcuni casi, sotto la supervisione di un addetto che non disdegnava di usare un bastone per spronare le malcapitate, come se avesse trattato con animali da soma.
Per quanto riguarda la nostra terra, un esempio lo ricaviamo soprattutto da alcuni scritti del tempo che si sono soffermati sulla lavorazione della seta e della liquirizia. Gli stralci seguenti, quindi, facendo luce su alcuni aspetti poco conosciuti, ci invitano a riflettere sulla strada percorsa riguardo ai diritti nel campo lavorativo delle donne e sui percorsi da intraprendere per appianare le disparità ancora esistenti tra il mondo lavorativo maschile e quello femminile.
La gelsicoltura e la bachicoltura si svilupparono durante i secc. XV e XVI (…). Quest’attività era di competenza delle donne e di solito si svolgeva nell’ambito familiare. In un articolo della nobildonna Clelia Pellicano, che è una delle collaboratrici del giornale unico del 1906, si legge tutta una tradizione locale in merito alla pratica della bachicoltura: “L’allevatrice, durante le quattro fasi grecamente dette ziija, arteri, trito,casarro, (le quattro ‘spoglie’ il cui intervallo è segnato dal letargo), cioè dal momento in cui il seme ha sentito i primi tepori del fuoco (quandonon è una vampata che lo brucia addirittura!), fino a che i bozzoli d’oro non vengono distaccati dal bosco, durante quei quaranta giorni ogni casetta colonica è tramutata in una bacheria. Ma non è facile penetrarvi! La massaia mette ogni astuzia nel sottrarre la “nutricata” agli sguardi indiscreti, perché ogni occhio invidioso le è fatale. (…) Se si riesce a penetrare nella casetta, ch’è il più delle volte un tugurio, si è subito colpiti dal particolare odore del‘flugello’ e dal rumore come di minutissima pioggia ch’esso fa brucando la foglia del gelso. Graticci ovunque: sulla finestra, sulla tavola, sulle sedie, finanzo il letto ha un baldacchino di cannizze, dove sopra uno strato verde formicolano i vermi bruni, giallognoli, dorati, secondo le età”. “Non si riusciva ad aggregare il pulviscolo delle iniziative domestiche in un’unità efficiente e in un contesto produttivo, la fabbrica vera e propria, per produrre manufatti di ottima qualità ed a prezzi competitivi”, dice (lo storico) Brasacchio.
Si constatò che la produzione non era competitiva rispetto a quella del Piemonte e della Lombardia specie per via del sistema antiquato di lavorazione e furono adottate, in alcune aree, macchine più nuove per migliorare la qualità ed abbassare il costo della produzione. Risultati felici di attività imprenditoriali allora assursero a vere e proprie industrie.
A Cosenza un filatoio di seta organzina con macchine a vapore, una filanda a vapore a Villa S. Giovanni, in provincia di Reggio, a Catanzaro, rispettivamente a Folino ed a Primicerio, due fabbriche di seta organzina e poi tante altre in località minori con un impiego di numerosi operaie. In una filanda la presenza femminile era del 93-95%. Agli uomini erano affidati compiti di manutenzione dei macchinari e di contabilità, alle donne invece la spelaiatura, la cernita, il trasporto delle ceste di bozzoli dalla bozzoliera alla filanda, la filatura e la finitura delle matasse.
Un’altra pagina dell’elegante scrittura di Clelia Pellicano ci soccorre circa lo sconvolgimento di quell’ormai antico lavoro e si riferisce all’attività che svolgevano le donne a Villa S. Giovanni: “Dall’impercettibile seme, al bozzolo ambrato e lanuginoso, dal bozzolo alla stoffa più fine, tutto passa attraverso un esercito di macchine che si completano l’un l’altra. La serichiera, la stufa, il cocconiere, la filatura, l’incannatorio, l’ovale, la cardatura, la tintoria. Centotrentadue donne (oltre quelle adibite al trasporto del legname ed alla pulizia dei forni) trovano in quelle filande lavoro e mercede. Nel camerone attiguo alla serichiera (una serichiera enorme, capace di contenere in due piani centocinquanta enormi graticci) sessanta operaie sono intente alla selezione del bozzolo; e chine sulle grandi tavole che ciascuna ha davanti a sé, con due canestre ai lati, tuffano rapidamente le mani nella soffice messe bionda; gettano in una cesta lo scarto,nell’altra il bozzolo scelto, che viene poi distribuito alle maestre della filatura. Due sono i metodi adatti per la filatura, quella alla Piemontese, e l’altra detta alla S. Giovanni. Nulla di più simpatico del colpo d’occhio che offre al visitatore la filatura alla Piemontese: un corridoio lungo più di 500 palmi dove, a destra e a sinistra, s’allineano 60 mangani, guarnito ciascuno di due naspi, sì che quando l’uno di essi è pieno, si sospende alla tettoia per dar tempo alla seta d’asciugarsi, e si rimpiazza con l’altro. Ciò sotto la sorveglianza di fanciulle quasi tutte giovanissime e graziose, mentre la maestra, seduta innanzi al fornello,è intenta al lavoro. (… ) Allorché i mangani sono tutti in attività si hanno circa 70 libbre di seta al giorno; ogni maestra, tirando dai naspi due fili di seta in una volta, riesce a farne per una libbra e più. (… ) Nulla manca: dai telai per le stoffe a quelli per le calze; dai grandi serbatoi che somministrano l’acqua, alle caldaie dove la seta vien messa a mollo affinché perda la gomma; dalla stufa alla tedesca, alla tintoria: tintoria alla cui direzione occorrerebbe un chimico valente perché quest’arte non continui ad essere, com’è stata finora, monopolio di pochi artisti, e quasi un segreto di cui essi sono gelosi custodi.” (… )Ma già dal 1855 la sericoltura cominciò ad accusare la crisi, dovuta soprattutto alle malattie che attaccarono i gelsi e ne decretarono la senescenza, tantochè alla fine si arrivò ad importare la materia prima e poi a constatare l’impossibilità di continuare, data la levitazione dei prezzi rispetto alla concorrenza.
Un’altra industria di prestigio in Calabria fu quella della pasta di liquirizia nella fascia ionica, concentrata soprattutto nella Sibaritide e nel Marchesato. Le fabbriche più note erano a Rossano, a Corigliano, ad Altilia. In questa località solo il barone Barracco impiegava nella sua impresa ben 300 operai. Le fabbriche di liquirizia, tutte in Calabria Citra erano circa quattro ed erano state incrementate dai Campagna già dal 1826. Anche per quest’attività venivano impiegatele donne con un duro regime di lavoro a voler credere a V. Padula: “Le donne erano venti, tutte in fila con avanti un favoletto di noce e ciascuna con un utello alla sua destra. Il capoconcaro scodellò nel mezzo del tagliere una pasta tuttavia bollente; le meschinelle si versarono sulle mani un filo d’olio dall’utello e con l’estreme dita spiccarono della pasta scottante, facendo siffatti versi col volto che mossero il riso. Nessuna canzona, nessun motto arguto allegrava il lavoro; il fattore andava sossopra per ogni nonnulla e punto che l’opera gli paresse abborracciata, e punto che una donna si disistancasse, egli era sempre lì a frugarle le spalle col suo maledetto legno.
Quando la pasta fu mediocremente ammarezzata, le donne raddoppiarono il maneggio: i lombi, i polsi travagliarono con più lentezza, ma con forza maggiore; il dorso della mano si fece turgido e livido, il sudore gicciò dalla fronte. Per ridurre allora la pasta più obbediente ed arrendevole vi sputarono sopra, si sputarono sulle mani, il che facendoci stomaco bastò a toglierci da quel luogo”.(…) Se i tentativi d’industrializzazione entrarono tutti in crisi, l’attività dell’artigianato non fu mai deludente ed anche in questo campo, buona parte dell’attività del filare, tessere, ricamare è stato appannaggio della donna. Tra l’altro le donne calabresi adoperavano un tipo di colorazione vegetale, con cui tingevano stoffe e filati, oggi riproposta con interesse dall’industria all’avanguardia. Numerose mostre attestano in vari tempi il vanto della Calabria di saper creare manufatti splendidi di colori e di forme. Una testimonianza significativa del successo di questi lavori, corredata da splendide immagini, si trova in “Brutium”, giornale d’arte diretto da A. Frangipane, dove è raccolto buona parte del corpus della storia artistica della Calabria.
La regione calabrese, dopo aver organizzato a Catanzaro la 1ª mostra d’arte, nel 1912, e ben due Biennali Calabresi d’arte moderna, nel ’20 e nel ’22, partecipò più volte, nel 1923e nel 1925, a Monza, alla mostra internazionale di Arti decorative con grande successo. Vi furono esposti mobili rustici, ceramiche, terrecotte, tessuti e coperte. I commenti della stampa furono tutti favorevoli. Nel “Giornale della donna”, in un articolo di Maria Guidi si leggeva: “La sezione della Calabria nei suoi arazzi multicolori, tessili e tinti a mano, nelle sue espressioni d’arte rustica, ha le caratteristiche del popolo di forte tempra, amante della semplicità. L’umile artigianato delle regioni più solitarie che segue un personale sogno… lo troviamo qua e là in questa sala d’una parte d’Italia, ancora agreste, ancora profumato di forte genio nostrano”. Milano come Roma, nel “Sec. XX”: “I tessuti mirabili di grazie come le ceramiche, nelle sagome vigorose nelle quali par ritrovare movenze d’antichi vasi italici, così i mobili di semplicissime geometrie come i ricami, le frange di Nicastro, dove le avvincenti fluidità dei fili intrecciati si stendono con piacevoli morbidezze, ogni opera, anche la più umile, offre qualche grazia… Anche portata fuori dal suo naturale ambiente, l’opera dei decoratori calabresi non perde la sua naturale qualità”. Fu una sorprendente esperienze che fece conoscere la Calabria al di fuori dei suoi confini e rafforzò negli operatori, incoraggiati dal Prof. Frangipane, la volontà di rompere l’isolamento, vincere la pigrizia e l’egoismo per valorizzare le grandi potenzialità della loro regione. Forse all’epoca,l’artigianato apparve la salvezza economicamente e culturalmente parlando più promettente, contro la delusione dell’industrializzazione: “Non ci culliamo nella speranza cheil diluvio meccanico possa salvare ogni cosa. Noi, anzi, se venisse un tale diluvio, prepareremmo l’Arca, ma ci piacerebbe salvare un pocoalmeno della pura espressiva ruvidezza delle nostre antiche produzioni. Perché un giorno – chi sa? -potrebbe venire a noia anche il frastuono dell’acciaio”.
Brani tratti da “L’economia calabrese tra l’Ottocento e il Novecento. Il lavoro femminile nelle industrie e nell’artigianato” di GaetaninaSicari Ruffo da “Le Donne e la Memoria”,Città del Sole Edizioni, 2006.