di Gianluca Albanese
Capita di rado di poter scegliere qualcosa da leggere mosso solo da curiosità e libertà. A me capita mediamente una volta l’anno. Lo scorso 24 dicembre, dopo una mattinata passata a fare pacchetti, a sorridere ai clienti in attesa e a dissimulare con qualche chiacchiera il mio imbarazzo per la (scarsa) velocità con cui li preparo, è capitato, dopo pranzo, di posare gli occhi su una copertina essenziale. Un vecchio autobus a due piani sovrastato da un cielo di un azzurro reso molto tenue dalle nuvole.
Lo scelgo, lo porto sulla poltroncina che usiamo per gli incontri con l’autore. Mi auguro solo che non sia un altro romanzo di emigrazione oltreoceano. Belli – per carità – ma forse ne abbiamo letti troppi.
Bastano un paio di decine di pagine lette avidamente a farmi capire che “Alright, compà” di Rino Garro (Rubbettino Soveria Mannelli, 2021) è un volume di grande attualità, sebbene l’impressione è che i fatti siano ambientanti almeno un paio di decenni fa, quando social network, mondo virtuale e metaverso sembravano fantasie da film di cassetta.
Lo leggo e mi appassiono come non mi succedeva da tempo. Penso subito ai tanti amici e colleghi incontrati nella mia esperienza professionale più significativa, che hanno tutti, suppergiù, quindici anni meno di me. Già, perché il bello del nostro mestiere è che abbatte le distanze generazionali e quelli che quindici anni fa erano ragazzi appena laureati, colti e talentuosi, all’epoca erano comunque qualcosa d’altro rispetto a me ai miei coetanei, ultimi a salire sul treno dei cosiddetti “garantiti” almeno per un bel po’. Invece, quella generazione di fenomeni, cresciuta tra gli Erasmus, i voli low cost e un precariato metabolizzato come uno stato di necessità, ora la sento più vicina, forse perché nel frattempo anche noi siamo stati risucchiati nel girone dei precari di fatto, quelli che non si pongono nemmeno il problema della pensione perché è quasi certo che non arriverà. I primi dei ’70 e quelli nati a metà degli ’80 oggi si rincontrano spesso in qualche appartamento condiviso per esperienze lavorative a tempo, magari in qualche scuola del Nord, per annusare l’odore della sicurezza economica, almeno per un po’. E dopo una prima fase in cui ci si confronta sulle differenze – la nostra cartaverde delle Fs perde nettamente il confronto con i primi Ryanair – ora ci ritroviamo tutti a bordo degli autobus in giro per l’Italia e anche per l’Europa. Ché i treni a lunga percorrenza quasi non passano più.
E in autobus partì il protagonista di “Alright Compà”, professore precario in una Firenze più bella da turista che da residente, che tra una stagione e l’altra di incertezza e attesa del concorso che verrà volle tornare per qualche tempo laddove ebbe un’esperienza da studente-lavoratore qualche anno prima. Un ristorante italiano vicino Manchester che diventa casa, lavoro e alcova. Certezza cui aggrapparsi, anche se l’estate da quelle parti dura tre settimane.
Lui, il precario laureato è l’icona dei tanti che tengono sempre una valigia pronta, perché partire è il solo imperativo utile per uscire da un’impasse pericolosa come l’incertezza che la determina.
Attenzione, però, perché non ci sono solo la saudade iniziale del protagonista professore precario laureato e meridionale. No, c’è tanta vita in “Alright compà” perché capita che a un certo punto quella provincia britannica fredda e grigia cominci a fartela piacere. Tra una sbronza e un’avventura, la narrazione scava dentro i dettagli della vita quotidiana, divenendo diario di viaggio più che romanzo. L’autore non descrive la vita in Inghilterra, ma accompagna il lettore e lo fa accomodare in quelle stanze britanniche con le moquette polverose, in quelle strade sempre uguali e nel tran tran quotidiano di un ristorante con lo staff che diventa famiglia.
Italiano, laureato, lavapiatti o cameriere. Una figura comune e ricorrente al giorno d’oggi. Specie nell’Inghilterra pre-Brexit, piena di opportunità da cogliere al volo. E poco importa come andrà a finire, perché comunque il protagonista mostra la capacità di vivere il quotidiano senza fare progetti troppo lunghi come i tempi impongono. Forse perché sa bene che la sua isola la porterà sempre nel cuore. E, se necessario, ci saprà tornare.
Non c’inganni, dunque, il retrogusto amarognolo. “Alright compà” ha il sorriso di chi riesce a prolungare lo spirito della gioventù semplicemente sorridendo alla vita.
Da leggere mandandolo giù tutto d’un fiato. Come una pinta di birra appena spillata.