di Gianluca Albanese
SIDERNO – Siamo giornalisti, non ci possiamo fare niente. Lo siamo da una vita, da quando quel sacro fuoco ci è entrato nell’anima e non ci ha più abbandonato. Lo siamo ogni giorno fin dalla tenera età, e lo saremo sempre fino alla fine dei nostri giorni, indipendentemente da tutto, dalle minacce, dalle condizioni contrattuali a dir poco umilianti, dalla vita privata che si dissolve. Siamo giornalisti e basta. E’ la nostra vita. Non ci possiamo fare niente. Da poche settimane è uscito “L’altro giorno ho fatto quarant’anni” (2018, Laurana editore) del collega Lucio Luca, ragusano trapiantato a Roma e firma di “Repubblica”. Racconta, in maniera romanzata ma incredibilmente realistica, la storia di Alessandro Bozzo, collega di Donnici, hinterland cosentino, che si è tolto la vita il 15 marzo del 2013, esattamente sette anni e un giorno dopo l’esordio in edicola di “Calabria Ora”, la testata più rivoluzionaria e innovativa di questa terra sfigata e che deve la sua denominazione dall’esperienza eroica de “L’Ora” di Palermo. Che emozione quel giorno. Quel 14 marzo del 2006 sentivamo che stava iniziando qualcosa di unico e di grande per l’informazione di questa regione. La storia ci racconta come finì la corsa, la macchina deviata lungo una linea morta (cit.) ma sono certo che se ci avessero chiesto di rifare quell’esperienza la rifaremmo da capo tutti. Nonostante tutto. In primis chi scrive, che decise autonomamente e dopo un contratto appena rinnovato di interrompere la propria corsa il 5 aprile del 2012, semplicemente perché non era più lo stesso giornale. Chi scrive, infatti, prese una decisione improvvisa quanto ineluttabile, nottetempo, come tutte le scelte dalle quali non si torna indietro. E decise di comunicarla a tutti sul proprio blog nel cuore della notte, ancor prima che ai propri referenti al giornale.
Ma la storia di chi scrive è piccola, modesta, quasi banale di fronte alla vicenda umana e professionale di Alessandro Bozzo. Un inquadramento da professionista, una bella famiglia e una figlia adorata. Abbandonate dopo un lungo travaglio interiore in cui le delusioni professionali s’intrecciarono con una vita privata che gli stava sfuggendo di mano, e con ricatti troppo forti anche per le sue spalle possenti.
Ecco, il racconto di Lucio Luca ci spiega – ma spiega soprattutto a chi pensa che i giornalisti siano una sorta di “casta” di opportunisti e di prezzolati cecchini – cosa sia il giornalismo, e come lo si interpreta quando si crede davvero in quello che fa. Da leggere ogni volta che qualcuno, con una buona dose d’ingenuità, pensa che gli organi d’informazione siano superati, superflui rispetto ai flussi indistinti e bombardanti di “notizie” rimbalzate da quella immonda cloaca rappresentata, il più delle volte, dai social network.
Un libro da leggere, per capire che non siamo solo firme, “buchi” che si danno e si prendono, scoop e colpi di fortuna, ma che siamo anche e soprattutto uomini e donne con una missione: raccontare la verità, anche quella che fa male, perché come diceva Benedetto Croce “un buon giornalista, ogni mattina, deve dare un dispiacere a qualcuno”. Senza prendersi mai troppo sul serio, per carità. Ma credendo in quello che facciamo.
Siamo venuti a conoscenza del libro grazie al talentuoso collega e scrittore Alfredo Sprovieri da San Pietro in Guarano, un presepe nella presila poco sopra Cosenza. Un ragazzo per bene, che come noi, conosce “la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia” e non abbiamo esitato un attimo a leggerlo e a organizzare due presentazioni: una a Siderno e l’altra a Reggio Calabria, che avranno luogo la seconda decade di gennaio dell’anno che sta per arrivare.
Nel libro di Luca, i protagonisti vengono chiamati solo col nome di battesimo. Ma li conosciamo e li riconosciamo uno per uno, così come conosciamo molti dei fatti e delle circostanze narrate, seppur in maniera romanzesca. Leggerlo avidamente è stato come tornare indietro di un decennio abbondante, il più significativo della nostra modesta carriera professionale.
Cosa resta, dopo la lettura del libro? Una grande rabbia per la vicenda di Alessandro e la voglia di integrare i contenuti del libro con una lettera che ognuno di noi che ha condiviso lo stesso percorso professionale di Alessandro Bozzo, oggi intende rivolgergli in maniera immaginaria. Sperando che da lassù, dal paradiso dei buoni e dei puri, possa leggerla, per commentarla, come sempre, con un dissacrante “fotte niente”.
Questa è la nostra.
“Ciao Alessandro, ti ricordi di me? Non credo. Del resto, ci siamo sentiti solo una volta per telefono. Giugno 2010. Ti chiamai per invitarti alla prima presentazione del libro inchiesta “Avamposto. Nella Calabria dei giornalisti infami” (2010, Marsilio editore) dei colleghi dell’osservatorio “Ossigeno per l’informazione” Roberto Rossi e Roberta Mani. Scelsero Locri, palazzo Nieddu, per presentare queste storie di giornalisti minacciati in una terra difficile. Busta con minacce per te, solita quereletta temeraria per me. Mi rispondesti a stento, quasi scocciato, come a chiederti chi fosse questo collega di periferia che pretendeva che tu facessi duecento chilometri solo per presentare un libro in cui, raccontando storie vere, avresti potuto essere scambiato per la solita figurina dell’antimafia. “Poi vediamo”, mi dicesti. E non ti nascondo che ci rimasi un po’ male. Pensai che la proposta non fosse poi così allettante, perché pervenuta da un collega semisconosciuto nella mitica redazione centrale, con poche “ribattute sul regionale” all’attivo, perché in questo periferia del mondo, come diceva il grande Totò Delfino, se non scrivi di ‘ndrangheta, in fondo, non ti caga nessuno. Non era vero. Oggi, solo dopo la lettura del libro di Lucio Luca, capisco che già allora, tre anni prima di quella terribile decisione, già provavi quel disagio interiore di chi ama maledettamente questo mestiere ma non è più in condizioni di farlo come la sua coscienza gli suggerisce. Solo oggi, che anche io ho una famiglia, mi chiedo se, all’epoca, in cui ero un single impenitente e con poche responsabilità, avessi potuto fare quella vita di redazione, che per sei anni rappresentò la ragione principale della mia esistenza terrena. Oggi che la compagna della mia vita, intelligente e amorevole oltre i miei meriti, a volte mugugna se vado nello studio a scrivere fino a tarda notte solo perché ho avuto un documento o una fonte confidenziale che mi rivela una notizia che vale la pena far sapere all’opinione pubblica, penso a te che vedevi tua figlia la mattina presto prima del suo risveglio e tornavi a casa dopo che si era riaddormentata. Tu fosti davvero coraggioso a fare quella vita fino in fondo. Perché le minacce di delinquenti e politicanti paesani contano fino a un certo punto. I tormenti di una coscienza molto di più. Tu mostrasti gli attributi molto più di me, che me ne andai da quel giornale dalla sera alla mattina perchè non lo riconoscevo più, ben sapendo che avrei avuto il paracadute di un altro lavoro pronto a soddisfare le esigenze primarie di sopravvivenza. Un lavoro meno romantico e coinvolgente, certo. Ma con tutti i diritti riconosciuti e uno stipendio accreditato a fine mese. Tanto, prima o poi (più prima che poi) sarei tornato a fare l’unico mestiere che sono capace di fare nella vita. Tu quel paracadute non ce l’avevi. E lo sguardo di tua moglie e di tua figlia t’impediva di prendere scelte simili alla mia. Oggi nemmeno io ho il paracadute. Mi sono lanciato in un’avventura altrettanto affascinante ma senza garanzie. E mi commuovo pensando all’estate appena passata, quando fuori dalla mediateca di Riace nei giorni torridi del festival, seduto davanti al mio banchetto di libraio ambulante conversai con un signore cosentino che mi parlava di te, commuovendosi anche più di me.
Lo sai che ho presentato il libro di Alfredo nella libreria che ho insieme alla mia compagna, e anche quello di Paride? Entrambi furono ospiti a casa mia a cena, perchè il bello di questo lavoro è che ti permette di costruire rapporti umani che in un’altra vita sarebbero impensabili.
Oggi ho il rimpianto di non averti conosciuto a fondo e di non essere stato un tuo compagno di avventura, gomito a gomito, vicino di scrivania, come invece furono Alfredo, Rosa e Marco.
Peccato, avresti avuto anche il mio abbraccio, nonostante il tuo carattere. E nonostante il mio.
Ma sappi che mi ricorderò sempre di te, specie davanti a una tastiera, la nostra propaggine col resto del mondo. E di fronte a un’ingiustizia, a una minaccia e a un’ordinaria infamia che chi fa questo mestiere sa che deve mettere in conto, penserò – tra me e me – che … “fotte niente”.”.